venerdì 14 maggio 2010

The Shape of Jazz to Come? Federico Scettri

Per la prima puntata di The Shape of Jazz to Come? - la nuova rubrica dedicata ai giovani da tenere d'occhio sulla scena jazz italiana - siamo andati a curiosare dietro i tamburi della Cosmic Band di Gianluca Petrella, perché è lì che solitamente opera Federico Scettri: batterista romano, classe '85, entusiasmo da vendere.
Nel suo presente però non c'è solo l'esperienza con l'ensemble del trombonista, ma una serie di iniziative e progetti che fanno pensare a un futuro tutt'altro che monotono

All About Jazz: Raccontaci come è andato il primo incontro con la batteria e con il jazz.

Federico Scettri: Ho iniziato a suonare presto, a circa quattro anni. Per gioco costruivo dei piccoli set con scatole e pentole, e li percuotevo con posate e mestoli da cucina. La mia passione per la musica la devo a mio padre, che insegnava organo al conservatorio, e alla sua immensa collezione di dischi di musica classica: quindi non ricordo di aver "iniziato" a interessarmi alla musica, c'è sempre stata!

Per quanto riguarda la batteria, ricordo che a circa sette anni andai a seguire una lezione e fui subito entusiasta. In seguito ebbi l'occasione di partecipare ai laboratori del pianista Ramberto Ciammarughi, che mi diede la possibilità di avvicinarmi all'improvvisazione e alla musica jazz. Ho continuato la mia esplorazione con un periodo di lezioni da Fabrizio Sferra e poi con Ettore Fioravanti, "Siena Jazz" e i laboratori di Stefano Battaglia, esperienza che ha cambiato radicalmente il mio modo di vedere la musica.

AAJ: Qual è stato il tuo percorso di formazione sul campo?

F.S.: Le mie prime esperienze le ricordo intorno ai dodici anni in alcune scuole di musica a Roma, e quindi i primi concerti con gruppi cover, soprattutto rock e pop. Molto importante è stato l'incontro con Derek Wilson, batterista attivo nella musica pop italiana, che negli anni mi ha trasmesso una forte disciplina sullo strumento e la capacità di avere "grandi orecchie" quando si suona. Durante il liceo ho poi approfondito la tecnica con un altro ottimo insegnante, Ettore Mancini, ma il momento più interessante è stato quando un paio d'anni dopo il liceo mi sono trasferito a Bologna, è lì che ho conosciuto e poi collaborato con tanti musicisti (ad esempio Domenico Caliri, Edoardo Marraffa, Antonio Borghini) che hanno "formato" il mio percorso e che mi hanno fatto ascoltare e conoscere la musica in maniera profonda.

AAJ: Quando hai capito di essere diventato musicista a tutti gli effetti?

F.S.: Durante il liceo la musica occupava praticamente tutto il mio tempo al di fuori degli studi scolastici, anche durante un anno intero in cui non potei suonare a causa di una forte tendinite a un polso. E così anche dopo la scuola: non ho fatto altro che suonare e affrontare le prime esperienze professionali, che mi hanno appassionato sempre di più alla musica e alla composizione, alla quale mi sono avvicinato da un po' di tempo.

AAJ: Quali sono i progetti musicali nei quali sei attualmente impegnato?

F.S.: I gruppi con cui collaboro sono molto diversi tra loro e in ognuno riesco a esprimere le mie idee, trovando il mio "posto" all'interno della musica: Orange Room, un sestetto condotto da Beppe Scardino; Pospaghemme, in duo sempre con Beppe Scardino; Headless Cat, in trio con Francesco Bigoni e Antonio Borghini; East Rodeo, un gruppo con i musicisti croati Alen Sinkauz e Nenad Sinkauz, insieme ad Alfonso Santimone; Jump the Shark, un quintetto diretto da Piero Bittolo Bon. Inoltre collaboro anche con il gruppo della cantante Patrizia Laquidara e con Funky Football, un progetto su Bretches Brew di Miles Davis condotto da Enrico Merlin.

“Di sicuro la batteria si occupa spesso del groove, ma è soprattutto il suono che mi interessa: la qualità del proprio suono sullo strumento, indipendentemente dalla qualità della batteria o dei piatti!”

AAJ: Mentre Coming Tomorrow: Part One con la Cosmic Band di Gianluca Petrella è l'ultimo lavoro a cui hai preso parte. Come è organizzato il vostro lavoro di squadra? Qual è il tuo ruolo specifico nei meccanismi del gruppo?

F.S.: Una band di dieci elementi è una formazione molto ampia e quindi l'elemento fondamentale è Gianluca Petrella, non tanto come direttore, quanto come organizzatore della musica. Il materiale scritto è molto aperto, perciò l'obiettivo sta nel dare una direzione alla musica nel senso della densità sonora, delle dinamiche, e degli eventi musicali durante il concerto.

Io, in particolare, non mi sento legato a un ruolo preciso. Di sicuro la batteria si occupa spesso del groove, ma è soprattutto il suono che mi interessa: la qualità del proprio suono sullo strumento, indipendentemente dalla qualità della batteria o dei piatti! Nel tempo e nei vari concerti che abbiamo tenuto ho cercato di coltivare la capacità di ascoltare quello che succede, recepire immediatamente ed essere molto reattivo. Questo non vuol dire che la musica deve essere sempre mutevole, ma che bisogna saper scegliere il momento giusto per far accadere qualcosa. In tal senso, un gruppo così numeroso offre molti stimoli.

AAJ: In che modo il batterista può liberarsi degli stereotipi che lo inquadrano "semplicemente" come portatore del ritmo per gli altri musicisti?

F.S.: Direi che la batteria è solo uno strumento, come lo è un sassofono o la voce o una chitarra. Di sicuro in molte tradizioni musicali la batteria e le percussioni sono strumenti dedicati più all'aspetto ritmico della musica. Penso sia solo una questione di scelta da parte delle persone. Esistono moltissimi esempi dove la batteria ha un ruolo melodico nel discorso musicale, lavorando più sulla tessitura sonora e timbrica, piuttosto che sulla scansione ritmica di ciò che suona. Ascoltare la musica classica dal primo Novecento in poi, ma anche lo studio dell'improvvisazione e della musica ad essa legata, mi hanno insegnato come tutti gli strumenti (e soprattutto quelli a percussione) possano essere esplorati e utilizzati in maniera del tutto creativa.

AAJ: L'esperienza con Gianluca Petrella ti potrà tornare utile per un eventuale progetto da leader?

F.S.: Mi ritengo molto fortunato a suonare con Gianluca sia sotto il profilo artistico che professionale, e di sicuro la sua personalità nella musica e sul palco mi ha insegnato molto: quando suoni "deve" succedere qualcosa, in quel momento. Un'esperienza del genere poi ha giovato anche sul piano della visibilità mediatica, e sono contento quando vedo che tanti musicisti mi conoscono e mi apprezzano proprio grazie al fatto che suono con Gianluca Petrella. Speriamo che questa carta in più porti dei frutti e non rimanga fine a se stessa! Visto soprattutto il periodo di "refrattarietà culturale" che stiamo vivendo. Vedo un certo rifiuto, da parte dei festival e degli addetti ai lavori, verso nuovi gruppi sconosciuti che se non fanno capo a un musicista già famoso non vengono quasi mai presi in considerazione.

AAJ: Quali sono gli aspetti sui quali vuoi concentrarti per progredire ulteriormente e i punti di forza del tuo modo di fare musica?

F.S.: Direi che la disciplina mi ha sempre aiutato a essere metodico nello studio. Quindi cerco di essere innanzitutto costante sia nella pratica dello strumento che nell'ascolto dei dischi e nella scrittura. Ho imparato nel tempo a non avere troppa fretta, a non bruciare le tappe. Non penso ci siano grandi segreti in questo senso: l'unico modo è impegnarsi e imparare a concentrarsi, magari anche su degli elementi molto semplici, ma cercando sempre di migliorarsi e di lavorare sui propri limiti.

AAJ: Se accendo il tuo iPod, cosa trovo in play?

F.S.: Di sicuro i Meters: ho comprato da poco il loro primo disco e Zigaboo Modeliste è stato una grande scoperta! Poi anche Quaristice un disco degli Autechre, un gruppo inglese di musica elettronica, veramente unici in quel genere. Poi Pretzel Logic degli Steely Dan, una mia grande passione. E ovviamente Such Sweet Thunder dell'orchestra di Ellington, una musica che ogni volta mi sorprende, e l'orchestra di Jimmie Lunceford: amo soprattutto la creatività dei batteristi di cento anni fa! Un grande maestro è per me Sergiu Celibidache che dirige la "Sinfonia n.9" di Bruckner, e grande ispirazione trovo nell'Ensemble Intercontemporain che suona Xenakis. Di recente mi hanno prestato un disco del Transatlantic Art Ensemble diretto da Evan Parker e Roscoe Mitchell: spaziale è dire poco.

AAJ: Nella tua vita, oltre che per la musica, quali altri interessi o passioni coltivi?

F.S.: Da qualche anno ho ripreso a leggere, cosa che ahimè ho praticato poco durante la scuola: letture piuttosto random, da Agota Kristof, a Brodskij, a Konrad Lorenz, a Jodorowsky. Mi fido molto dei consigli dei miei amici!

giovedì 13 maggio 2010

Fabrizio Savino: Stampo metropolitano

Stilisticamente ispirato da John Scofield, dotato di ottima tecnica e capace di esprimere un linguaggio jazzistico fresco e seducente, Fabrizio Savino - che si è da poco messo in mostra con l'album autografo Metropolitan Prints - è uno dei migliori giovani in circolazione. Abbiamo intervistato il chitarrista di Bari (classe '81), il quale ci ha illustrato la genesi del suo album e il proprio modo di intendere il jazz.

All About Jazz Italia: I brani di Metropolitan Prints hanno come tema ispiratore gli aspetti della città e le sue forme. Come nasce l'esigenza di raccontare in musica questi elementi?

Fabrizio Savino: Volevo racchiudere e raccontare in musica la mia esperienza passata. Ho viaggiato abbastanza per potermi formare artisticamente e questo mi ha dato la possibilità di confrontarmi con molte persone, sia musicalmente che non. Avevo bisogno di più stimoli possibili che mi dessero la possibilità di cercare un mio linguaggio di espressione, nella musica così come nella vita. Chiaramente questo percorso si è svolto principalmente in grandi città italiane ed estere; ed è lì che ho vissuto le varie forme di città, positive e negative.

AAJ: Come si è formato il gruppo che ha poi inciso il disco?

F.S.: Con Raffaele Casarano, Mike Minerva e Dario Congedo c'era già un'amicizia. Con loro ho avuto la possibilità di suonare in passato molte volte. Li ho voluti perché, conoscendoli bene musicalmente, sapevo che avrebbero contribuito alla realizzazione della mia idea in maniera positiva e soprattutto personale. Poi casualmente, in una jam durante un festival jazz, ho conosciuto Luca Aquino e lì ho capito che doveva esserci. Ho sempre adorato il suono della tromba, e lui, con la sua idea "elettronica," mi ha subito colpito.

AAJ: Ascoltando l'album traspare una certa attitudine per l'inserimento di piccoli elementi elettronici. Quando componi, in che modo ti relazioni con le macchine?

“Avevo bisogno di più stimoli possibili che mi dessero la possibilità di cercare un mio linguaggio di espressione, nella musica così come nella vita.”

F.S.: Credo che l'elettronica sia veramente un gran passo verso la musica del futuro, anche se ormai è molto presente. Ho voluto nel disco queste sonorità, perché mi dessero la possibilità di suonare "dentro la metropoli". Mi spiego meglio: l'elettronica ti dà la possibilità di catapultarti in atmosfere in maniera molto realistica (un po' come il 3D utilizzato nei film di nuova generazione), e dato che Metropolitan Prints doveva essere questo, allora ho scritto sempre immaginando un effetto sonoro che poi le macchine mi avrebbero dato. Adoro molto il suono acustico e l'idea del trio mainstream, ma in questo disco dovevo suonare così. Quando compongo è la musica a fare da padrona, cerco sempre di non pensare a come dovrebbe suonare il brano, ma a suonarlo e basta. Più lo immagini, più lo suoni, più tutto viene da sé. Incominci a sentire atmosfere ed idee che diventando sempre più chiare, fino a quando non diventano realtà. Le codifichi e allora capisci ciò che serve.

AAJ: L'unico brano non autografo è "Gallerie" di Raffaele Casarano. Mi parli della vostra collaborazione?

F.S.: Con Raffaele suonare è bellissimo. È un artista che lascia molto alla tua personalità, e inoltre è una persona fantastica. Con lui ci siamo conosciuti per un concerto a Villa Celimontana, dove lo invitai come ospite del mio trio. Da lì è nata una bella amicizia e collaborazione. Volevo un suo brano nel disco, e così è nato. Il ricordo più bello durante la registrazione, è quando mi lasciò solo nella sala, mi fece abbassare le luci e partì il "rec".

AAJ: Artisticamente parlando sei attratto dalla figura di John Scofield. Quali sono le caratteristiche che vi accomunano?

F.S.: Difficilissimo da dire. Trovo più giusto parlare di quali sono le caratteristiche di Scofield che mi hanno sempre affascinato. Innanzi tutto l'idea di suono, il blues (costantemente presente nel suo linguaggio), le composizioni, il suo fraseggio. Ho voluto dedicargli un brano ("John Street") come una sorta di ringraziamento a un grande artista, capace di raccontare la musica, in ogni suo disco, in maniera differente. Basti pensare a Blue Matter, uno dei primi dischi di Scofield "fusion," fino ai dischi di oggi quasi del tutto blues. Un artista senza un preconcetto musicale, capace di racchiudere tutti i generi in una sola parola: MUSICA. E come lui citerei un altro artista importantissimo per me e per la storia della musica passata e futura: Miles Davis. Unico!

AAJ: Dove deve scavare un giovane jazzista per trovare la sua originalità?

F.S.: Credo innanzi tutto nel jazz come forma di linguaggio, prima ancora di genere. Quindi sicuramente per poter parlare bene una lingua, bisogna studiarla nella forma, costruzione, dialettica, e dopo subentra la fase dell'espressione. Qui la fa da padrone l'emozione. Basta vivere a 360° in rapporto con il mondo, per essere costantemente stimolati da ogni forma di emozione. "Purtroppo" il passato jazzistico ci ha segnati moltissimo, infatti ci ritroviamo a suonare ancora oggi quei brani e moltissime volte quegli stili. Tutto ciò va più che bene, anche perché abbiamo la possibilità di studiare il sound di vari periodi, ma dobbiamo anche soffermarci sulla loro originalità. Il be-bop, il cool jazz, l'hard-bop, sono nati per mano loro, noi non dobbiamo soltanto riprodurli, ma evolverli secondo la nostra idea di musica, e logicamente di espressione.

AAJ: Utilizzi le chitarre che tuo fratello Francesco costruisce. Quali sono le caratteristiche che deve avere il tuo strumento ideale?

F.S.: La chitarra è come se fosse il prolungamento delle mie idee, quindi deve essere il più vicino possibile a loro, in tutte le sue parti. Nella scelta dei legni, corde, hardware, tipo di chitarra (solidbody, hollowbody o archtop) fino ad arrivare al tipo di plettro, diversi in misure e materiale, e logicamente ampli ed effetti. La mia fortuna è avere un fratello liutaio (Savino Custom) che mi ha dato la possibilità di chiarirmi le idee su come diversi tipi di legni in combinazione tra loro mi dessero sonorità differenti. Tutt'ora utilizzo una chitarra hollow body, con corpo e manico in mogano, tastiera in ebano, e top in acero quilted, costruita da lui. Questo strumento ha la particolarità di non annullare l'idea elettrica, caratteristica delle solid body (per esempio utilizzo spesso anche un Sg Gibson), ma al tempo stesso mi dà la spinta acustica della cassa. Per adesso è la chitarra dove mi rispecchio di più.