domenica 27 dicembre 2009

Un anno di concerti e interviste su aaj italia: 2009


Un anno di recensioni su aaj italia: 2009


23-12-09
Franck Taschini R.O.G. (La note bleue productions) di Roberto Paviglianiti
17-12-09
Jason Stein In Exchange for a Process (Leo Records - distr. IRD) di Roberto Paviglianiti
14-12-09
Mickey Finn + Cuong Vu Gagarin! (El Gallo Rojo) di Roberto Paviglianiti
04-12-09
Steve Davis Eloquence (Jazz Legacy Productions) di Roberto Paviglianiti
01-12-09
Dino Acquafredda Quintet On the Line (Philology - distr. IRD) di Roberto Paviglianiti
27-11-09
Jack DeJohnette - John Patitucci - Danilo Perez Music We Are (Golden Beams - distr. Egea) di Roberto Paviglianiti
26-11-09
The Fonda - Stevens Group Memphis (Playscape Recordings) di Roberto Paviglianiti
19-11-09
Joe Morris Quartet Today on Earth (AUM Fidelity Records - distr. Goodfellas) di Roberto Paviglianiti
16-11-09
Riccardo Fioravanti - Lara Iacovini In Mood of Chet (Music Center) di Roberto Paviglianiti
29-10-09
Stefano Bollani Stone in the Water (ECM - distr. Ducale) di Roberto Paviglianiti
23-10-09
Schweizer Holz Trio Love Letters to the President (Intakt Records - distr. IRD) di Roberto Paviglianiti
15-10-09
Michele Polga Clouds Over Me (Caligola Records - distr. IRD) di Roberto Paviglianiti
12-10-09
Small Band First Flight (Abeat Records - distr. IRD) di Roberto Paviglianiti
29-09-09
The October Trio + Brad Turner Looks Like It’s Going to Snow (Songlines Recordings - distr. IRD) di Roberto Paviglianiti
23-09-09
Chris Pasin Detour Ahead (H2O Records) di Roberto Paviglianiti
22-09-09
Antonello Sorrentino S. T. Quintet Blog (Wider Look) di Roberto Paviglianiti
21-09-09
Trio di Roma 33 (EmArcy - distr. Universal) di Roberto Paviglianiti
17-09-09
Jacám Manricks Labyrinth (Manricks Music Records) di Roberto Paviglianiti
16-09-09
David Berkman Quartet Live at Smoke (Challenge Records - distr. Egea) di Roberto Paviglianiti
14-09-09
Fabrizio Sferra Trio Rooms (EmArcy - distr. Universal) di Roberto Paviglianiti
28-07-09
Guilherme Monteiro Air (Bju Records) di Roberto Paviglianiti
22-07-09
Gruppo Q Live in China (Radio SNJ records) di Roberto Paviglianiti
16-07-09
Tom Scott Cannon Re-Loaded: An All Star Celebration of Cannonball Adderley (Concord Records - distr. Universal) di Roberto Paviglianiti
08-07-09
Pippo Matino Joe Zawinul Tribute (Wide Sound - distr. Egea) di Roberto Paviglianiti
02-07-09
Vassilis Tsabropoulos The Promise (ECM - distr. Ducale) di Roberto Paviglianiti
01-07-09
Wasabi Wasabi (Picanto Records - distr. Egea) di Roberto Paviglianiti
16-06-09
Miles Okazaki Generations (Sunnyside Records) di Roberto Paviglianiti
18-05-09
Magic Malik Orchestra Saoule (Label Bleu - distr. Egea) di Roberto Paviglianiti

giovedì 17 dicembre 2009

Intervista a Paolo Benvegnù: tutti i respiri che ho

di Roberto Paviglianiti e Ida Stamile

Abbiamo contattato Paolo Benvegnù a tre giorni dal concerto di Roma dello scorso 12 dicembre, l’ultimo di una lunga serie che ha consacrato il cantautore milanese, e la sua band omonima, come una delle realtà più importanti – per intenzione, stile, concretezza – del panorama indie italiano. Durante questi due anni ci sono state uscite discografiche,tour virtuali, compilation, riconoscimenti e brani prestati a voci più famose. Tempo di bilanci dunque, inevitabili, e di prospettive future, ancora incerte e da definire, organizzare e comprendere con estrema cautela.

leggi l'intervista su rockaction.it

domenica 22 novembre 2009

Itinera: intervista a Onofrio Piccolo Jazzit #55

La label partenopea Itinera nasce nel 2004 dall’esperienza del Pomigliano Jazz Festival, ponendosi come obiettivo primario, prima ancora della vendita discografica, la divulgazione culturale delle proprie produzioni. Ne abbiamo parlato con Onofrio Piccolo, direttore artistico della realtà campana, il quale ci ha spiegato i motivi di una scelta coraggiosa.

Con il Festival di Pomigliano avete raggiunto traguardi importanti. Qual è il fine dell’etichetta discografica?
L’obiettivo è quello di documentare e promuovere la nostra attività culturale. A un certo punto della nostra storia abbiamo deciso di costruire un’etichetta che potesse valorizzare il lavoro fatto in questi anni, con il festival di Pomigliano e altre iniziative, e dare il giusto risalto a quelli che sono i talenti campani; musicisti che non sempre trovano uno spazio adeguato nel panorama nazionale, ma che hanno una loro forza artistica da esprimere.

Quanto è dura la vita di una label indipendente in Italia?
Durissima. Noi viviamo perché siamo partiti con un intento culturale più che esclusivamente commerciale. Convinti che la valorizzazione, nel tempo, possa essere un segno riconoscibile e la strada per conquistare uno spazio e una credibilità a livello nazionale.

Siete nati negli anni della rivoluzione internet legata alla fruizione musicale. Una scelta per certi versi coraggiosa.
Certamente. Anche se il nostro è un lavoro basato sulla produzione musicale più che sulla produzione discografica. Il mercato cambia, ma sicuramente rimane l’interesse verso la musica. In tal senso stiamo riorganizzando il sito per sfruttare al meglio le opportunità che internet offre. La rete è un enorme risorsa per raggiungere posti lontani, infatti le nostre vendite in Italia e all’estero sono praticamente della stessa entità. Questa rivoluzione può favorire i piccoli produttori che puntano sulla qualità.

Pensi che tra qualche anno esisterà ancora un mercato discografico, inteso come vendita di supporti fisici?
Per quel che riguarda il jazz sì. Chi ama questa musica ama anche il supporto. La cosa non mi preoccupa, il problema è di chi si è appiattito sul mercato discografico, noi abbiamo più l’idea di essere produttori di musica.

Il catalogo di Itinera inizia a prendere forma con 14 titoli a disposizione. Qual è la caratteristica di cui andare fieri, e dove c’è ancora da lavorare?
La nostra caratteristica principale sono le molte produzioni originali. Non pubblichiamo pacchetti già ideati, puntiamo molto nelle scelte, nei progetti, e favoriamo incontri tra musicisti in questo grande contenitore che continua a chiamarsi jazz, ma che ormai è difficile da definire. In questo modo stimoliamo artisti di diversa estrazione musicale e geografica, dando un contributo alla produzione creativa. D’altro canto dobbiamo migliorare sulla costruzione di un’attività dal vivo che possa far arrivare in maniera diretta la musica al pubblico. Se l’arte non è in grado di arrivare alla gente, perde di forza e significato.

Quando termina la lavorazione di un disco e lo ascolti per la prima volta, a quale elemento presti maggiore attenzione?
Principalmente all’impatto emotivo e poi alla qualità sonora. Credo nella freschezza delle esecuzioni più che al perfezionismo tecnico, anche se è chiaro che la qualità di registrazione deve essere sempre alta.

In studio come ti relazioni con i musicisti?
Cerco di creare un’atmosfera positiva e di far dare il massimo ai musicisti. Questo è possibile solo se c’è armonia. La lezione di Miles è sicuramente sempre da seguire.

Cosa vi differenzia dalle altre label del vostro settore?
Non amo parlare di cosa fanno gli altri, ognuno fa le sue scelte, ma posso dire che noi non seguiamo le mode. Leggendo i cataloghi di altre etichette vedo che ci sono spesso scelte di comodo, progetti che guardano e ammiccano al mercato e al facile ascolto. Noi, pur credendo che sia fondamentale fare cose per farle ascoltare non solo a noi stessi, in qualche modo cerchiamo sempre un grado di rischio in quello che facciamo.

Itinera nasce dall’esperienza del festival di Pomigliano Jazz. Qual è concretamente il rapporto tra le due realtà?
È un rapporto di causa-effetto. L’etichetta nasce dal lavoro fatto nel festival, ma la nostra intenzione è sempre stata di tenere le due realtà su binari paralleli. È chiaro che lo spirito è molto simile, ed entrambe sono spinte da un comune senso di divulgazione culturale, ma nelle intenzioni devono vivere di vita propria. Il festival è libero di programmare le cose più giuste, e le produzioni di Itinera non per forza devono entrare nel cartellone del festival, tranne quando lo riteniamo opportuno.

Organizzare una rassegna jazz in Campania: pro e contro.
Di positivo c’è che Napoli è un luogo simbolo della musica nel Mondo. C’è un background musicale stratificato e pieno di commistioni culturali e artistiche. C’è una grande ricettività e il pubblico, quando ci sono buone proposte, risponde in massa. Chiaramente le difficoltà sono quelle di un’impresa che vive in un contesto complicato, sia dal punto di vista istituzionale che territoriale. Non c’è possibilità di programmare in largo anticipo le attività da svolgere e questo crea un notevole handicap a livello promozionale. Abbiamo negli anni costruito una serie di rapporti internazionali che a volte non riusciamo a rispettare proprio per questi motivi. Limiti e vincoli burocratci ci tolgono molte possibilità di espansione. È un sistema che non funziona a dovere. Anziché supportare le attività, creano ostacoli.

I cartelloni dei festival jazz sono sempre meno coerenti con una precisa filosofia artistica.
Molto spesso vediamo festival che si lasciano andare ad attività di scambio, che non sempre sono culturali, ma sono solo di interesse. Non per fare i moralisti, ma nel nostro piccolo cerchiamo di mantenerci autonomi, senza forzature. Siamo uno dei festival che continua a proporre nel cartellone concerti difficili. Nell’ultima edizione, per fare un esempio, abbiamo avuto Antony Braxton sul palco. Questo modo di fare ci ha dato modo di toglierci qualche soddisfazione.

Riversate molte energie anche alle attività collaterali, come incontri, guide all’ascolto e workshop.
Certo. Facciamo un grande lavoro per avvicinare e ampliare il pubblico. Abbiamo un seguito giovane e di target diversificato, anche perché abbiamo organizzato molte attività parallele, come l’educazione all’ascolto nelle scuole, gratuita e aperta a tutti. Molte risorse sono dedicate alle attività di creazione del pubblico, soprattutto verso i non musicisti, e tutte queste attività di divulgazione ci hanno restituito una certa credibilità.

Nella storia del festival, qual è stato il concerto più importante?
Se devo citarne uno solo dico Chick Corea in trio acustico, nel 2001, davati a quasi 15000 persone. È stato un evento forte per la nostra immagine. Ha segnato una svolta da una fase di avvio a un consolidamento.

Chi tra i musicisti che frequentano le vostre produzioni potrà lasciare un segno? Nomi e cognomi, please.
Due pianisti: Franco Piccino, che ha debuttato con un disco in trio (“Lunare”, ndr) e l’anno prossimo uscirà con un piano solo di libera improvvisazione; e Francesco Nastro, con il quale collaboriamo da molti anni e meriterebbe di avere uno spazio pià ampio nel jazz i

Picanto: intervista a Sergio Gimigliano Jazzit #50

Nata sotto il segno del peperoncino

In un momento difficile per la discografia in generale e in particolar modo per le piccole label, andiamo alla scoperta della calabrese Picanto Records, una bella realtà che si sta facendo largo grazie alla determinazione, la voglia e il cuore del suo direttore artistico, Sergio Gimigliano. Il produttore/musicista ci ha raccontato da dove nasce e come sta muovendo i primi passi un progetto cha sa di sfida e che - a cominciare dal nome - ha il sapore eccitante della passione autentica.

Identificarsi nel peperoncino può avere diverse chiavi di lettura: qual è, delle sue proprietà, quella che più vi si addice?
Sicuramente quella d’essere stimolante e piacevolmente piccante. Così, come il peperoncino ha un odore inconfondibile e provoca una forte sensazione che stimola ai massimi livelli le papille gustative, noi della Picanto cerchiamo, attraverso i cd, di stimolare gli altri sensi: l’udito, ma anche la vista e il tatto (curando nel dettaglio la grafica e il packaging), al fine di solleticare quanto più possibile la fantasia di chi li ha tra le mani e sta per ascoltarli.
Il jazz, in quanto improvvisazione, è anch’esso piccante, e proprio come il peperoncino non sai mai, prima di assaggiarlo, quanto lo sia.

Quali sono le vostre radici e da dove prende forma la Picanto Records?
Siamo nati nel 2005 dall’esperienza organizzativa del Peperoncino Jazz Festival - rassegna itinerante che da sette anni si svolge in Calabria a luglio e agosto - e la sede è a Diamante (CS), in una regione in cui il collegamento con il peperoncino è culturalmente inscindibile; ecco il perché del nome.

Qual è l’obiettivo che vi siete posti all’inizio della vostra avventura, in un momento in cui l’importanza dell’etichetta discografica sembra ridotta ai minimi storici?
A dire il vero, in fase di ideazione della label, non abbiamo per nulla considerato questo fattore. Forse con un po’ d’incoscienza, ci siamo fatti spingere solo e unicamente dalla passione per questa musica incredibilmente viva e dalla nostra voglia di fare. La Picanto Records è nata con l’obiettivo di produrre qualcosa che ci rappresenti totalmente, e per noi che i cd li abbiamo sempre amati e collezionati, non c’era niente di più bello e interessante da fare.

I Radiohead hanno dato il via, in ambito pop/rock, al fenomeno del download a libera offerta o addirittura gratuito, bypassando completamente la figura della label. Come giudichi questo tipo di scelta? Pensi che un fenomeno simile possa farsi largo anche nel panorama jazzistico?
Guardiamo alla diffusione tramite internet con grande interesse e attenzione, considerandola un forte incentivo per avvicinare neofiti e giovani al grande universo della musica afroamericana. Allo stesso tempo, però, crediamo che il mondo del jazz, e della musica colta in generale, sia ancora lontano dal poter essere oggetto di un fenomeno analogo a quello che ha travolto il pop e un certo tipo di rock. Sta tutto nell’essenza stessa di questo genere e nel target del jazzofilo, che nella maggior parte dei casi è un appassionato con la a maiuscola e, in quanto tale, considera la musica un’opera d’arte e ne apprezza anche il supporto, le informazioni contenute nel booklet, la veste grafica e la qualità del suono.

Qualità di registrazione che viene troppo spesso messa in secondo piano, mentre gli album targati Picanto colpiscono per precisione e cura della sfumatura. Vale ancora la pena battere questo sentiero o il pubblico è destinato ad ascoltare lavori sempre più approssimativi?
Credo che valga sempre la pena puntare sulla qualità, qualunque siano le condizioni o le fasi storiche, lasciando da parte i numeri. Consideriamo i nostri cd delle vere e proprie “opere d’arte”; curiamo al massimo delle possibilità tutti gli aspetti (anche quelli che per altri sono secondari) e le fasi di realizzazione. Dalla direzione artistica, nel senso di scelta dei progetti da produrre, alle sessioni di ripresa, di missaggio e di mastering fatte con i giusti tempi, in studi di registrazione collaudati e curate da bravissimi ingegneri del suono. Penso all’idea grafica - riconoscibile e, quindi, riconducibile all’etichetta - e all’impianto fotografico del booklet; così come alla distribuzione nazionale e internazionale (Egea Distribution), a un ufficio stampa dedicato e un sito internet sempre aggiornato (www.picantorecords.com).
Siamo certi che gli appassionati meritino tutto questo, e dobbiamo a loro la possibilità di continuare a produrre buona musica.

Cos’è che fa la differenza tra un buon musicista e un artista che vale la pena produrre?
Difficilissimo rispondere. Non abbiamo mai pensato in termini prettamente commerciali. Noi produciamo ciò che ci piace e che ci trasmette belle sensazioni, tanto è vero che in passato, e continueremo a farlo, accanto ad artisti di fama nazionale e internazionale ne abbiamo prodotto altri poco noti - soprattutto giovani talenti - che ci hanno emozionato con la loro musica.

Puoi dirci il nome di un giovane del panorama jazz italiano sul quale puntare a occhi chiusi e perché?
Sono talmente tanti i giovani talenti che è veramente difficile rispondere. Mi viene in mente un giovane pianista di Lamezia di nome Francesco Scaramuzzino. Oltre a essere un musicista dotato di talento e sensibilità è, senza dubbio, anche un ottimo compositore, e con il suo Smaf Quartet vanta già molte collaborazioni importanti: Marco Tamburini, Tino Tracanna, Max Ionata, Achille Succi, Pietro Condorelli.

Tredici titoli che hanno tutta l’aria di rappresentare un’ottima base sulla quale poter costruire qualcosa d’importante: hanno un comune denominatore che li lega? Cosa ci dobbiamo aspettare nei prossimi mesi dalla vostra label?
Forse è ancora presto per rispondere. La label è ancora giovane, ma stiamo seriamente lavorando a un nostro suono. Ci piace pensare che da qui a poco la gente, ascoltando un nostro lavoro, dica: «si sente che questo è un cd Picanto». L’obiettivo è di poter scegliere sempre più i lavori da realizzare. Amiamo far confrontare musicisti italiani con artisti internazionali, così come abbiamo già fatto dando spazio a rappresentanti della nuova scena jazzistica newyorkese come Gregory Hutchinson, Xavier Davis, Danny Grissett, Quincy Davis, e protagonisti della scena europea tra cui Dedé Ceccarelli, Dominique Di Piazza, Nelson Veras, Manhu Roche. Il prossimo lavoro targato Picanto, che uscirà a gennaio 2009, va proprio in questa direzione: la scorsa estate l’etichetta - in collaborazione con il Peperoncino Jazz Festival - ha organizzato il tour e la relativa session di registrazione dei Tenor Legacy, quartetto piano-less nato dall’incontro di due tra i tenoristi più interessanti di casa nostra, Daniele Scannapieco e Max Ionata, con una delle sezioni ritmiche più richiesta al mondo, composta da Reuben Rogers al contrabbasso e dall’incredibile Clarence Penn alla batteria.

Dal punto di vista professionale, quanto è difficile organizzare eventi e promuovere progetti nel meridione?
Avendo avuto importanti esperienze professionali anche nel centro-nord della penisola, posso dire che le difficoltà nel Sud Italia sono molto maggiori e questo - senza scendere nei particolari - perché non esiste, nella maggior parte dei casi, la possibilità di una seria programmazione. L’amore per la nostra terra è, però, talmente forte da superare qualsiasi ostacolo. Attraverso il lavoro d’organizzazione d’eventi e di produzione discografica possiamo promuovere una terra meravigliosa, dandone un’immagine diversa e del tutto positiva.
E poi, spesso sono le cose difficili da realizzare le più belle e interessanti, quelle che ti danno più soddisfazione e maggiori stimoli. A pensarci bene, probabilmente anche l’etichetta è nata come una sorta di sfida.

Dodicilune: intervista a Gabriele Rampino jazzit #48

L’amore per la contaminazione, la cura della qualità sonora e una veste grafica dal taglio giovane, sono alcuni degli elementi che caratterizzano i dischi targati Dodicilune: scopriamo, insieme al direttore artistico dell’etichetta leccese Gabriele Rampino, da dove nasce e come si evolve un progetto che trova la propria forza creativa dall’unione di concetti come eleganza e modernità.

«Il fenomeno del download illegale è una piaga rivelatrice della profonda inciviltà anche di molti sedicenti intellettuali».

1) La storia della Dodicilune inizia nel 1995 con una registrazione del pianista classico Francesco Libetta su un pianoforte d’epoca (Bechstein, 1875), e con una serie di lavori legati alla musica sinfonica: come si è spostata la vostra attenzione verso le sonorità d’estrazione jazzistica?
L’inizio nel settore della musica colta deriva dalle nostre frequentazioni di quegli anni, e dalla attività di registrazione che all’epoca effettuavamo con vari ensemble e con le Istituzioni Orchestrali. Ma in realtà abbiamo sempre ascoltato e vissuto il jazz; condiviso del jazz lo stato mentale, eternamente “work in progress”, e la sua urgenza creativa ed espressiva. Il passaggio è stato quindi naturale.
Oggi questa scelta, comunque aperta, è condivisa da me, che curo l’impostazione editoriale, e da Maurizio Bizzochetti che rappresenta la vera spina dorsale di Dodicilune.

2) Fate della contaminazione e della visione musicale a 360° il vostro biglietto di presentazione; quali sono le musiche (im)possibili che vi attraggono?
Il termine contaminazione è oggi abusato e forse fuorviante. A noi piace il concetto di visione a tutto tondo, un ciclo intero e continuo che il nome Dodicilune, esplicitamente ispirato al lavoro “Twelve Moons” di Jan Garbarek, suggerisce. Una ricerca di musica nuova, sulla quale s’innestano i flussi di tutte le culture, che attinga alle diverse sorgenti e diventi possibile. Ci attrae la musica di chi ha assimilato a tal punto le culture “altre” da suonare qualcosa di proprio, di nuovo, nel cui dna ci siano tutte queste paternità. Gismonti, Sakamoto, Garbarek, Zawinul, Piazzolla, Ogerman, Miles: prova a shakerare e vedi se ti piace.

3) Da dove nasce l’amore per la qualità del suono? Quanto conta nella vostra produzione il dettaglio, la sfumatura?
L’amore ed il rispetto per il suono (e il silenzio), in quest’epoca low-fi, è fondamentale. Nasce dalla sensibilità per l’attesa, la sorpresa, il dettaglio, la nuance.
La qualità del suono è una vera e propria necessità, direi fisiologica. Spero si veda, nella nostra produzione, l’attenzione al dettaglio d’ogni genere e la cura riservata ad ogni singolo aspetto produttivo: dalla genesi dell’idea alla registrazione, fino alla realizzazione del prodotto finito.

4) I dischi che pubblicate sono immediatamente riconoscibili per via di una grafica ben impostata e peculiare. L’ascolto di un buon album inizia con l’osservazione della sua copertina, da quello che evoca e trasmette?
L’estetica rappresenta la vera cifra distintiva d’ogni iniziativa culturale e in particolar modo dell’editoria. La grafica dei dischi, che noto con piacere è divenuta sempre più oggetto di vero e proprio culto, rappresenta il primo segno di riconoscibilità di una label.
Negli anni abbiamo maturato una linea grafica ed estetica credibile e riconoscibile, anche se non senza difficoltà, poiché è necessario il rispetto del ruolo del produttore, che legge e vede oltre l’artista nella scelta del significante e del significato.

5) Nel vostro catalogo convivono nomi di rilievo (Lee Konitz, Kenny Wheeler, Ares Tavolazzi, Stefano Battaglia) e molti musicisti italiani emergenti, sintomo che dimostra un’attenzione particolare verso le nuove realtà. Quanto credete alle reali possibilità del nuovo jazz italiano?
Molto. Ci sono tanti musicisti progettuali e preparati, anche se Dodicilune ritiene indissolubili qualità come progettualità, intensità e preparazione nel distinguere un talento vero da un ottimo strumentista.
Riceviamo moltissime proposte discografiche, e se da un lato ci sono davvero molti musicisti di livello mediamente alto, dall’altro quello che spesso manca è la progettualità. In questo senso deve supplire l’editore che abbia idee e sappia realizzarle.
Tuttavia, notiamo una grave discrasia tra la qualità discografica, che è tendenzialmente sempre più alta, e la staticità (per non dire la pesantezza) delle programmazioni dei festival e delle rassegne, dove i nomi sono sempre gli stessi, a parte qualche piccola eccezione, e dove i progetti originali latitano. E di questo ne soffre il musicista creativo, che si sforza di frequentare territori inattesi e nuovi.

6) La musica si sta spostando sempre di più sul web. Come vivete questo momento di passaggio fondamentale? Quali possono essere i vantaggi di un cambiamento così radicale, e quale scenario si aprirà nei prossimi anni davanti ai nostri occhi?
Gli scenari sono imprevedibili, anche perché se fossero come li prevede l’antropologo culturale o il sociologo dei media noi dell’editoria non dovremmo esser ottimisti. Tuttavia i vantaggi indubbiamente sussistono: immediatezza delle informazioni, raggiungibilità degli interlocutori e visibilità. Trovo che, a parte il fenomeno del download illegale che è una piaga rivelatrice della profonda inciviltà anche di molti sedicenti intellettuali, il web fomenti l’auto-produzione e in generale la polverizzazione dell’offerta e la sua inusitata espansione. Se Myspace costituisce un valido mezzo di comunicazione di sé e della propria attività, alla fine genera un ascolto frettoloso e scadente, penalizzando gli artisti veri, quelli che non credono che il numero di contatti e/o amici su Myspace costituisca il criterio di valutazione.
In ogni caso, se non si abusa dello strumento, i vantaggi sono evidenti. Ma il supporto serve e faremo di tutto per mantenerlo in salute, da buoni feticisti del disco e ancor più del vinile, verso il cui ritorno ci stiamo orientando, e che tecnicamente ed emotivamente resta di valore superiore al cd.

7) Sul vostro sito, oltre alla possibilità di acquistare tramite iTunes, invitate gli ascoltatori a pubblicare recensioni e commenti sui dischi della Dodicilune. Quanto è importante il coinvolgimento del pubblico per la buona riuscita di un progetto come il vostro?
Il processo di fidelizzazione del cliente è fondamentale, in quanto permette di ovviare al naturale gap economico-strutturale che Dodicilune, come le altre indies, soffre rispetto alle major, specie per marketing e promozione. Abbiamo un pubblico affezionato e sempre più numeroso che ha apprezzato la cifra stilistica dell’etichetta e sostanzialmente sa cosa compra, sa che ci muove solo e soltanto la passione, e mai il calcolo. È sicuro di trovare un prodotto di qualità sotto ogni aspetto e che l’oggetto che ha in mano va oltre il concetto di mero intrattenimento: un disco Dodicilune non fa parte di un business plan, ma di un programma di ricerca a lungo termine.

8) Quali sono i progetti più interessanti per la prossima stagione?
Dodicilune inizierà una serie di progetti originali, un po’ alla Hal Willner, commissionando la composizione e la successiva registrazione di opere dedicate a un fenomeno artistico, ad un personaggio della cultura tout court, e così via.
Tra i dischi in uscita mi piace ricordare il nostro 50^ titolo in catalogo, “Stupor mundi” del Pierluigi Balducci Ensemble con Luciano Biondini e il Quartetto Dark, legato ai temi della cultura federiciana che in Puglia è molto radicata ed esprime una specie di melting pot culturale ante litteram che, debitamente aggiornata, vuole essere l’elemento distintivo della Dodicilune.
Ma non solo: Roberto Ottaviano con Pinturas; Ares Tavolazzi con Stefano Bollani e soprattutto “Ethos” del quartetto d’archi Alborada, con Paolo Fresu, Rita Marcotulli, Maria Pia De Vito e altri ospiti.
Abbiamo anche ideato alcune nuove linee editoriali, come Koiné, legata al mondo della vocalità vicina al jazz, ma aperta alla voce come modalità espressiva in quanto tale; e NeXt, nel nostro disegno un ponte creativo e sperimentale tra elettronica e jazz, con un design e un packaging sempre più ricercati.

martedì 3 novembre 2009

Stefano Bollani: intervista

Bollani è in Brasile. È in viaggio, in TV, in radio, Bollani è su Topolino. Con tutti i Bollani che ci sono in giro siamo riusciti ad acciuffare quello targato ECM. Il suo Stone in the Water non contiene nessun messaggio subliminale in riferimento all'acqua frizzante, è il nuovo lavoro realizzato con i musicisti danesi - Jesper Bodilsen, contrabbasso e Morten Lund, batteria - per l'etichetta di Manfred Eicher.
È anche l'ottimo pretesto per un'intervista, dove oltre a percorrere strettoie inevitabili, come il disco in questione, si prende volentieri il largo di una carriera già esemplare, ricca di avvenimenti importanti e aggrinzita, ma giusto un po,' da un rifiuto incassato con l'ironia che accompagna Bollani in ogni cosa, in ogni sua incarnazione.


All About Jazz Italia: Facciamo questa intervista dopo diversi contrattempi, dovuti forse al fatto che avevo detto all'ufficio stampa che si trattava di "10 domande"?
Stefano Bollani: Dici che mi sono spaventato? (ride, ndr). No, ma siccome l'ultimo che gli hanno rivolto dieci domande c'ha dei casini pazzeschi, come si chiama? Berlusconi? Non saranno mica le stesse?
AAJ: No, sono riguardo alla tua attività di musicista.
S.B.: Allora va bene, ci sono.

leggi il resto su all about jazz italia:http://italia.allaboutjazz.com/php/article.php?id=4487

domenica 25 ottobre 2009

Casa del vento: Articolo Uno

«L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Lo conoscono anche i bambini delle scuole l’articolo 1 della nostra Costituzione. Ma sempre più adulti lo considerano un accessorio, un qualcosa di trascurabile, di relativa importanza.

E quelli della Casa del Vento non ci stanno. Il loro nuovo album in studio è completamente incentrato sulle attuali problematiche del lavoro in Italia: dalle tristi vicende della ThyssenKrupp, ricordate con incredibile sintesi in “7”, al frazionamento di un popolo che una volta lottava per difendere i propri diritti (“Primo maggio”), alle visioni realistiche di un momento storicamente difficile per i lavoratori nel nostro Paese (“Articolo Uno”).
leggi il resto su l'isola che non c'era http://www.lisolachenoncera.it/recensioni/?id=730

Kiss: Sonic Boom

Dopo trentacinque anni carriera si possono nutrire molti sentimenti nei confronti dei Kiss: simpatia, nel peggiore dei casi; rispetto, che va anche oltre i gusti soggettivi; ammirazione, per uno dei gruppi che ha maggiormente segnato la storia di questa musica.

Ma “Sonic Boom”, l’ultima produzione in studio di Paul Stanley e soci, proprio non riesce a convincere, in nessun senso lo si voglia intendere. Undici brani dove si respira la stessa aria fritta, composta da ritornelli ammiccanti, assoli di chitarra sparsi un po’ ovunque, inclinazioni buone per la sigla di una ipotetica serie tv, qualche caduta di stile prossima al pop più commerciale, e commercializzabile, possibile.

I nostri sembrano aver definitivamente perso quel mordente, quella scintilla interpretativa che in questo lavoro può essere lontanamente rintracciata nei brani di maggior spessore: “Russian Roulette” e “I’am an Animal”, seppur buoni, da soli non bastano per strappare un applauso che non va oltre la circostanza.

Quello che sulla carta poteva essere un ritorno in grande stile, altro non è che uno scialbo riempitivo di una carriera che ha conosciuto ben altri significati. Ammettiamolo: la frutta è servita.

venerdì 23 ottobre 2009

Syd Barrett: a little black book with my poems in

ricordo perfettamente il momento in cui ho letto sul televideo la notizia della morte di syd barrett. lo ricordo semplicemente perché mi è venuto da piangere. per la prima volta ho pianto per uno sconosciuto. il giorno dopo ho iniziato ad appuntare su dei post it le idee, i sentimenti, per un pezzo commemorativo. quando vincenzo martorella mi ha chiesto se volevo fare un pezzo per muz magazine, l'articolo era praticamente pronto per il numero di luglio 2006.

wish you were here
Uno strano scherzo del destino ha voluto che l’esibizione al “Summer Festival”di Lucca, tenuta lo scorso 12 luglio da Roger Waters (con ospite Nick Mason durante “Dark side of the moon”), si trasformasse in un inatteso e sofferto tributo a Syd Barrett.
La sua morte, annunciata proprio il pomeriggio precedente, traccia un segno marcato nell’affascinante storia dei Pink Floyd, e lascia un vuoto incolmabile carico di rimpianti.
Sono passati quaranta anni dagli esordi nell’underground londinese, e la genialità di Syd, che innescò un moto perpetuo all’interno del suo gruppo, ancora oggi si riflette nelle strutture sonore di un vasto panorama musicale, che continua ad idealizzare quelle intuizioni che hanno reso il pazzo diamante una figura decisiva della cultura psichedelica, e non solo. Un personaggio unico nel suo genere, del quale, quando c’è da stilare l’elenco dei più grandi di sempre, si parla raramente; ma senza di lui alcuni aspetti dell’arte musicale sarebbero sicuramente rimasti inesplorati o quantomeno rimandati.

interstellar overdrive
Il periodo barrettiano, all’interno dei Pink Floyd, è durato una manciata di singoli e praticamente un solo album, “The piper at the gates of dawn” (1967); contenitore ineguagliato di trovate e slanci fluorescenti, eletto da fans e critici come uno dei manifesti dell’intera scena psichedelica e totalmente partorito dalla mente di Syd. L’irregolarità espressa nella forma canzone, la particolare dilatazione di spazio e tempo, la circolarità del suono e l’apparente disordine nella concezione dei brani, rendono lo stile visionario di Barrett affascinante ed allo stesso tempo inquietante, testimonianza tangibile di una lucida follia, che sfociò, purtroppo, nel suo dramma personale. Pochi mesi gli sono bastati per dare un nome ed una forza alla sua creatura, un marchio di fabbrica indelebile che ha contraddistinto i Pink Floyd durante la loro lunga carriera, fatta di molte luci e poche ombre, di sogni e drammi, ma perennemente accompagnata dall’anima del loro leader. Le abitudini ed i suoi atteggiamenti sono finiti spesso nei testi della band, il suo sperimentalismo ha continuato a scorrere nelle armonie pinkfloydiane in modo più o meno esplicito, ma comunque sempre molto caratterizzante.

vegetable man, where are you?
La dieta a base di Mandrax ed acidi lisergici, non ha fatto altre che velocizzare il processo d’autodistruzione, che, a volte, ha assunto i tratti di una consapevolezza disarmante. Il carattere introverso e distante dai canoni della pop star lo ha portato, proprio quando la carriera era sul trampolino di lancio, al crollo mentale; imbrigliato in schemi e procedure dalle quali non si sarebbe mai riuscito a tirare fuori. Le scene mute durante gli shows televisivi del primo tour in america, la catatonica presenza nelle interviste, e soprattutto l’incapacità di portare avanti un discorso insieme agli altri componenti della band, spinsero il gruppo verso un primo utopistico momento di formazione a cinque, con l’aggiunta di David Gilmour, e successivamente all’estromissione definitiva di Syd. I tentativi generosi di una carriera solista (decisa principalmente dai discografici, che ritenevano inconcepibile la band senza Barrett), e gli sforzi produttivi proprio dei suoi ex colleghi, lasciano ai posteri due album anemici e svogliati, “The madcap laughs” e “Barrett” del 1970, dove si può ascoltare la sua voce indecisa e priva dell’usuale elettricità, in un contesto vagamente paradossale. Una prova estrema, e quasi dovuta a chi gli era intorno, ma che non ha fatto altro che mettere la parola fine ad una breve e controversa vicenda artistica. Di lui rimane l’immagine di quello sguardo, perennemente enigmatico, velato di tristezza e pieno di un’inarrestabile pazzia. La fuga da se stesso, la crisi esistenziale, il rifugio nella vita solitaria in campagna, lontana dalle luci accecanti della celebrità, sono la conferma del completo rifiuto della propria persona. Nascosto dagli sguardi della folla, nulla poteva sembrare pericoloso e niente poteva raggiungerlo, mentre tutto scorreva distante, continuando a vivere in quei luoghi sognanti descritti nelle sue fiabe surreali.

like black holes in the sky
I Floyd non hanno mai cessato di manifestare il loro affetto verso Barrett; a cominciare proprio da quel Roger Waters che sembra essere stato il promotore principale dell’accantonamento dalla band (vicenda mai troppo ufficializzata), che non ha mai mancato l’occasione, fin dal primo tour solista di Radio KAOS (1987), di ricordarlo attraverso la proiezione del filmato di “Arnold Layne”, e le immancabili dediche prima dell’attacco di “Shine on you crazy diamond”. Dal canto suo anche David Gilmour, amico d’infanzia e, di fatto, colui che ha preso il suo posto all’interno del gruppo, ha spesso trovato il modo si sottolinearne il profilo prettamente artistico e musicale, riproponendo ed arricchendo dei suoi brani, basti pensare alla splendida “Dominoes” targata 2002. Questi sono solo alcuni degli esempi recenti che hanno contribuito alla creazione della mitologia su di lui; alla sua sfuggente figura, a quegli occhi persi nel vuoto come buchi neri nel cielo, che portano dritti alla mente, al pensiero geniale ed astratto.

I’ll see you on the dark side of the moon
Syd Barrett scrisse, in maniera spiazzante, il suo inquietante testamento musicale nel testo di “Jugband blues”, il brano inserito alla fine di “Saucerful of secrets” (1968); frasi del tipo: “E’ molto cortese da parte vostra pensarmi qui, e vi sono molto obbligato per aver chiarito che io non sono qui”, lasciano oggi un eco agghiacciante sulla consapevolezza del proprio destino. Un uomo morto due volte, un personaggio che solo ora potrà prendere il suo meritato posto tra gli immensi nel firmamento, tra John Lennon e Jimi Hendrix ci piace pensare che nascerà una nuova fonte di luce… continua a brillare pazzo diamante!

mercoledì 21 ottobre 2009

Paolo Fresu: intervista

Una storia apparentemente normale

È veramente difficile tenere il discorso fermo su un unico punto quando dall’altra parte del telefono c’è Paolo Fresu, uno dei jazzisti italiani più apprezzati nel mondo, ma anche produttore artistico e - per dirla con le sue stesse parole - stimolatore culturale.Partiamo da “Think.”, il secondo capitolo musicale con Uri Caine arricchito dalla presenza dell’Alborada String quartet, e lasciamo che la corrente ci trascini fino a parlare delle collaborazioni in ambito pop, dei festival, ai nuovi orizzonti del disco per ECM e all’autobiografia in uscita questi giorni, insomma, fino a esaurimento scheda.

leggi l'intervista su rockaction.it

Pippo Pollina: intervista + recensione Fra due isole

“Fra due isole”, l’album dal vivo che celebra i primi venticinque anni di carriera di Pippo Pollina, è un lavoro stupendo. Questo perché, oltre a essere una raccolta sufficientemente esaustiva dei brani più convincenti firmati dal cantautore palermitano, presenta una tessitura musicale pregiata, dovuta alla partecipazione degli oltre settanta elementi dell'Orchestra Sinfonica del Conservatorio di Zurigo.



leggi l'intervista a pippo pollina su l'isola che non c'era

giovedì 1 ottobre 2009

Settembre: recensioni jazz

Fabrizio Sferra Trio: Rooms







http://italia.allaboutjazz.com/php/article.php?id=4289
Primo album da leader per Fabrizio Sferra, batterista che insieme ai giovani - e già ben rodati - Francesco Ponticelli (contrabbasso) e Giovanni Guidi (pianoforte), forma una realtà fisicamente coriacea, con i piedi ben piantati nelle coordinate del piano-trio, ma mentalmente pronta a farci viaggiare, e pensare, con leggerezza e fantasia.

David Berkman Quartet: Live at the Smoke

Sono i migliori momenti scelti da cinque set registrati nell'estate 2006, allo Smoke Club di New York, a comporre il materiale di questo Live at Smoke del David Berkman Quartet. Nelle note di copertina è lo stesso pianista a descrivere la sua passione per i jazz-club come lo Smoke: luoghi magici, dove la musica prende corpo e si dipana attraverso la passione del pubblico, dando vita a un'alchimia elettrizzante e sempre diversa.

Jacam Manrycks: Labyrinth

Jacám Manricks costruisce il suo labirinto sonoro con la voglia di condurci attraverso un viaggio originale, certamente sofisticato e stimolante.

Trio di Roma: 33

Chissà se Danilo, Enzo e Roberto, tre ragazzi che molti anni fa si riunivano in casa per suonare e divertirsi, pensavano di poter diventare un giorno, rispettivamente: Rea, Pietropaoli e Gatto, ovvero tre pilastri della scena jazzistica nazionale, e non solo.
Antonello Sorrentino: Blog









http://italia.allaboutjazz.com/php/article.php?id=4327
S'intitola Blog l'esordio discografico dell'S.T. Quintet capitanato dal trombettista Antonello Sorrentino e, proprio come in una sorta di bacheca virtuale, racchiude una serie di argomenti musicali di diversa natura, commentati e sviluppati in maniera mai scontata.
Chis Pasin: Detour Ahead







Detour Ahead segna il ritorno sulle scene, e paradossalmente anche l'esordio come leader, di Chris Pasin, trombettista di Chicago che diversi anni fa preferì allontanarsi dalla carriera jazzistica per dedicarsi completamente alla famiglia. Scelta lodevole, anche se (vista dalla parte dell'ascoltatore) si è trattato di un peccato, dal momento che questa registrazione è un'autentica delizia.

The October trio + Brad Turner: Looks Like It’s Going to Snow




«Moods and Colours of a Vancouver Autumn». Sì, potrebbe essere questa frase, scritta tra le note di copertina da Greg Buium, a fotografare l'attitudine dell'October Trio. Potrebbe, appunto. Perché se da una parte il suono di Looks Like It's Going to Snow rispecchia i colori tenui di uno scenario nordico, limpido e malinconico, dall'altra mette in mostra una nutrita varietà di situazioni che fanno venir in mente tonalità più accese, vive.

lunedì 28 settembre 2009

Blake/e/e/e: Roma 10 giugno 2009

Serata double-face al Circolo degli Artisti di Roma: fuori, nei giardini del locale, molti si attardano tra aperitivi e gossip; dentro lo stanzone, sotto al piccolo palco, si assiepano gli irriducibili dell’indie-rock per godersi la band di turno.

Anticipati dagli abrasivi Dolcevena, power trio incisivo al punto da meritarsi la riga che avete appena letto, sono stati i Blake/e/e/e - la band creata da Paolo Iocca e Marcella Riccardi, entrambi ex Franklin Delano – a intrattenere le poche unità interessate all’evento, malgrado l’ingresso gratuito. Un vero peccato, perché la cornice non è stata all’altezza dello spettacolo offerto da una band decisamente ben intenzionata e capace di mettere insieme un set interessante e originale.

Le tracce di “Border Radio” scorrono che è un piacere. Nella scaletta proposta le sottolineature vanno messe lì dove i quattro sul palco si muovono senza distrazioni tra mille deviazioni timbriche – c’è di tutto, dal banjo alla steel drum e diversi marchingegni elettronici –, senza cadere nei tranelli che brani dalla non facilissima esecuzione comportano. Ottima la riuscita live di “New Millenium’s Lack of Self Explanation”; molto ben a fuoco la spensierata “Holy Yes to the Sunny Days”; profonda e inebriante “The Thing’s Hallow” con la voce di Marcella Riccardi sugli scudi, non tanto per finezza e sfumature, ma per il suo alto contenuto ipnotico.

I Blake/e/e/e hanno proposto una giostra di sonorità che non trovano la sua giusta collocazione né nell’electro-folk, né nella psichedelia pura, tanto meno nel rock comunemente inteso. Da questo deriva il loro forte appeal, ma anche la scarsissima possibilità di poter aggregare un pubblico più copioso.

Rita Marcotulli: Appunti di viaggio (2004)

La seconda pubblicazione di “Appunti di viaggio”, collana multimediale dedicata a persone che hanno saputo tradurre il talento artistico in mestiere, punta i riflettori verso la pianista jazz Rita Marcotulli.

Il piccolo volume, 60 pagine (con traduzione in inglese) arricchite da molte foto inedite, contiene: una lunga intervista, dove l’autore lascia descrivere alla Marcotulli i momenti salienti della sua vita; un breve profilo generico che ne riassume le preferenze anche lontano dall’ambito musicale; un cd allegato di circa venti minuti - corredato da un’essenziale guida all’ascolto - non certo esaustivo, ma di sicuro aiuto per chi vuole avvicinarsi all’arte di una tra le più solide realtà del jazz italiano.

La storia della pianista romana è raccontata seguendo un ordine cronologico che va dall’infanzia trascorsa in una casa dove si respirava musica e spettacolo, il padre - tecnico del suono della RCA - era solito ricevere le visite dei vari Ennio Morricone e Nino Rota, passando per gli studi classici al Conservatorio di Santa Cecilia, fino alla folgorazione per il jazz. La musica è il perno dove ruota la sua vita intera, forgiata da una serie d’esperienze e di incontri. La compositrice ricorda quando, verso la metà degli anni ’80, viveva e suonava in Scandinavia con musicisti decisivi come Palle Danielsson, e descrive i successivi lavori con personaggi del calibro di Billy Cobham, Enrico Rava, Dewey Redman, Maria Pia De Vito e molti altri. Il libro si lascia leggere in scioltezza e riesce a far affiorare anche gli aspetti privati della vita della compositrice, andando a toccare con fluidità temi come la nascita della figlia, la quotidianità vissuta in campagna, l’unione con Pasquale Minieri e le idee affini alle filosofia Zen.

Il cd allegato contiene cinque brani, tra i quali spicca “Koinè”, forse la sua composizione più rappresentativa, dove s’incontrano diversi mondi musicali e da dove emerge una caratura artistica certa, avvolta in una spontaneità rara.

lunedì 10 agosto 2009

Zu: intervista

Gli Zu sono uno di quei gruppi ai quali voler per forza affibbiare un solo aggettivo, e tanto meno uno stile musicale definito, è un esercizio che oscilla tra l’inutile e il ridicolo. Il trio – Luca Mai (sax baritono), Massimo Pupillo (basso) e Jacopo Battaglia (batteria) – si muove da dodici anni senza farsi problemi di frontiere e barriere espressive, riuscendo a ottenere un suono e un’originalità che per molti rimarrà per sempre una chimera. In occasione del nuovo lavoro “Carboniferous”, uscito per la Ipecac di Mike Patton, abbiamo chiesto alla band romana di favorirci il loro passaporto musicale.

Cosa ha in più “Carboniferous” rispetto agli album precedenti?
“Carboniferous” è la summa di dieci anni di lavoro, la materializzazione di un’idea di suono che agli inizi non era ben chiara, ma che si è definita via via attraverso un duro e incessante lavoro live e una conoscenza dei materiali presenti negli studi di registrazione, nonché il fatto di voler allargare il nostro spettro sonoro, che essendo in tre necessita di un continuo lavoro di ricerca. Infine, appunto perché in tre, l’approccio allo strumento si è fatto più versatile e l’idea di strumento solista non è appannaggio solo di uno di noi, ma cambia continuamente, quindi può capitare che la batteria è lo strumento solista nonché melodico e il sax porta il tempo e viceversa con il basso. “Carboniferous” è un corpus unico con differenti stratificazioni che si compenetrano vicendevolmente senza che questo distolga l’attenzione dall’idea che lo sottintende.

Quanto avete impiegato per realizzarlo e come si è svolto il processo in studio?
Nello specifico ci sono voluti quasi due anni. L’ultimo anno lo abbiamo passato praticamente tutti i giorni chiusi in sala a comporre 5/6 ore pomeridiane di media e poi partivamo i fine settimana per rodare ciò che avevamo fatto precedentemente. Se c’era qualcosa che non funzionava lo riprendevamo il lunedì successivo. Devo dire che il processo creativo negli ultimi anni è diventato più o meno come diceva Picasso: «non cerchiamo più, ma troviamo».

Lavorare con Mike Patton e la Ipecac in che modo vi è stato d’aiuto? Ci sono state delle restrizioni in fase di lavorazione?
Nessuna restrizione, anzi, pieno supporto e questo fa la differenza quando poi devi fare un bilancio di come è andato il disco. Ti fanno sentire con le spalle coperte nonostante l’attuale crisi discografica.

Ho letto che molto materiale composto, anche finito, viene poi scartato. Cosa deve avere un pezzo per essere considerato all’altezza per un disco degli Zu?
Deve essere abbastanza zamarro da non sfigurare quando te lo ascolti su un’Alfa 75.

C’è un passaggio musicale del quale andate fieri e perché?
Direi di no anzi, può capitare dal vivo di cambiare delle note o effettuare delle modifiche e capire che sarebbero state belle sul disco e sostituirle alle attuali. Comunque siamo soddisfatti non ti preoccupare.

Chi di voi tre è la guida, quello da cui parte lo spunto, l’incipit decisivo per dar vita alla musica?
Gli spunti partono da ognuno singolarmente, oppure quando siamo in sala escono, come ti dicevo prima, le cose le troviamo, senza che perdiamo tempo a cercare. Poi è chiaro che c’è anche un lavoro di sgrezzamento e su questo siamo abbastanza pignoli.

Sul vostro passaporto musicale, alla voce segni particolari, cosa c’è scritto?
Cafoni!

Qual è l’elemento alla base del vostro concetto di trio e come è il rapporto tra di voi al di là dell’essere musicisti?
Siamo cresciuti insieme e abbiamo condiviso molte cose extra musicali, questo ha determinato qualcosa di più solido di un semplice rapporto tra musicisti e ciò fa sì che siamo una band. Poi, come in qualsiasi matrimonio, gli scazzi ci sono sempre.

Quanto culo vi siete fatti in questi dodici anni di carriera?
Taaaanto, e si continua. Non ci sentiamo arrivati, poi dove? L’unico arrivo che abbiamo presente e che ci accomuna è la morte, quindi la nostra vita la esperiamo in termini di espansione e di sfruttamento intensivo della nostra creatività, perché il tempo è tiranno e ciò che facciamo lo facciamo non sapendo neanche noi bene perché, ma sicuramente no in termini di carriera.

Non vi è mai venuta voglia di allargare la band in via definitiva o peggio, di mandare tutto all’aria?
Ogni volta che collaboriamo con qualcuno lo consideriamo della band, non un ospite, anche perché i rapporti sono sempre improntati sull’amicizia e il rispetto e questo ci basta. Per mandare tutto a carte e quarantotto dovrebbe succedere qualcosa di molto grave e ancora non è successo e qui faccio tutti gli scongiuri possibili, ma se poi succede, buonanotte.

Cosa ha reso possibile il poter essere conosciuti all’estero?
Impegno, dedizione, capacità di adattamento a stili di vita differenti nonché essere coraggiosi a mangiarsi le sbobbe olandesi.

Il New York Times (http://www.nytimes.com/2009/02/22/arts/music/22play.html?_r=1&ref=music) parla di voi in maniera entusiastica. Poi magari potete passeggiare per Roma senza che nessuno vi riconosca appena. Come vivete questo doppio aspetto della vostra personalità musicale?
La nostra vita è sempre stata un po’ schizofrenica tanto che agli inizi capitava che facessimo un tour in Europa pieno di gratificazioni e considerazione artistica, poi tornare a casa e la sera stessa andare a mettere i manifesti in giro per Roma, incontrare degli amici e sentirsi dire: «ahò … certo che voi state sempre a Roma… nun fate proprio un cazzo nella vita…».

Venite spesso accostati al mondo del jazz. Qual è la vostra idea di improvvisazione?
Diciamo che del jazz prendiamo soprattutto quell’etica di rottura e di ricerca che ha contraddistinto gente come Coltrane, Dolphy, Ayler, Mingus e altri grandi. Ogni rottura porta con sé l’idea di una nuova costruzione, ma questo non lo facciamo consapevolmente, come se fosse un manifesto a cui aderire. Per quanto riguarda l’improvvisazione a noi serve solo come spunto, in realtà abbiamo ridotto di molto questa pratica in concerto.

(A Luca Mai) A proposito di jazz: di recente su una rivista specializzata è apparso un articolo dove sostanzialmente si dice che i giovani saxofonisti si rendono conto che è quasi impossibile estrarre un qualcosa di originale da uno strumento cha ha già svelato ogni suo mistero. Sei d’accordo?
Gli strumenti a fiato erano accostati, nell’antichità, ai misteri dionisiaci o comunque orgiastici per la capacità che avevano e hanno di smuovere l’istintualità e metterla in contatto con quel mistero che sottende alla creazione e alla energia che la guida. Marsia, narra il mito, trovato l’oboe che Atena aveva buttato perché l’aveva resa ridicola di fronte agli Dei, se ne innamorò e suonandolo tutti i giorni divenne talmente bravo che creava delle melodie che venivano reputate più belle di quelle create alla lira da Apollo. Il dio lo sfidò in una gara musicale e solo per astuzia e raggiro lo battè e meschinamente lo squoiò. Marsia si trasformò in un fiume che ha ancora il suo nome e dove crescono dei canneti ottimi per la produzione di ance. Questo per dire che il ragionamento e tutto quello a cui è correlato non può distruggere un’energia in continuo movimento e trasformazione e quindi i cosidetti giovani sassofonisti si dovrebbero concentrare di più su quanto hanno da dire loro e non il sax per loro.

Avete preso parte alla compilation “Il paese è reale” realizzata dagli Afterhours. Vi sentite così legati alla scena indie? Pensate che la partecipazione della band milanese a Sanremo potrà effettivamente deviare il corso del fiume mediatico?
Siamo dei cani sciolti e non facciamo parte di nessuna scena indie perché non esiste una scena indie. Non credo che sortirà nessun effetto la presenza degli Afterhours a Sanremo perché l’Italia è un paese fortemente conservatore e arretrato, privo di quella cultura musicale che non sia il bel canto o la classica melodia italiana fatta sui soliti tre accordi. Non c’è voglia di investire e creare un mercato che potrebbe dare i suoi frutti ed essere condivisi, perché questo porterebbe anche cultura e questo è un paese dove è oramai assente e l’unico modo in cui la si intende è come vuole quel burattino di Berlusconi, cioè “cul cul cul cultura….”. Fino a quando i cd e i libri verranno considerati beni di lusso e quindi venduti a prezzi esagerati, non potremo aspirare a niente di buono dall’alto, ma è anche vero che finché la maggior parte degli italiani si sente orgogliosa di non leggere questo paese lo possiamo considerare perduto.

Tra cento anni, quando gli Zu non ci saranno più, cosa rimarrà scritto sui libri di storia?
Se il complotto globale avrà vinto e si sarà affermato completamente il “nuovo ordine mondiale” non credo che esisteranno ancora libri, un po’ come “Farenhait 451”. Se invece succederà qualcosa di significativo nel 2012 forse leggeremo che in un paese ridicolo di nome Italia esisteva proprio nel suo cuore uno staterello di nome Vaticano che per 2000 anni ha allungato la sua ombra oscura su tutta la nazione impedendole un naturale svolgimento dei propri diritti voleri nonché libertà personali, che molta gente è morta e ha sofferto per causa loro e molti bambini sono stati vittime dei loro abusi e che per questo nessuno di loro ha mai pagato veramente, grazie a un Papa di nome Ratzinger, l’ultimo dei papi. Poi leggeremo nel capitolo musica che è esistita una centrale per delinquere che si chiamava SIAE e che i suoi maggiori artisti iscritti si mangiavano i soldi dei più piccoli. Nel capitolo rock scriveranno che esistettero i Negrita e che fu il più grande gruppo della storia italiana mentre il paragrafo relativo agli Zu sosterrà che ebbero gli onori delle cronache solo perché in un raptus sconclusionato il sassofonista tagliò, con le chiavi di casa, la frangetta del grande e famoso cantante dei Dari. Per il resto non si sa che musica facessero.

lunedì 3 agosto 2009

Marina Rei: intervista (maggio 2009)

Incontriamo Marina Rei a Roma in pomeriggio quasi surreale, caratterizzato da un acquazzone dopo tanti giorni di caldo estivo e da sparute unità di supporter del ManU che battono la ritirata, sconfitti la sera precedente dopo tante pagine di gloria.
Marina ci risponde rilassata, leggermente provata dalle interviste in agenda quel giorno, ma pronta a ribadire la valenza del nuovo album “Musa”, e la forza di un pensiero che emerge chiaro e dai contorni ben delineati.

Perché la necessità di un album come “Musa”, dedicato al mondo femminile?
Non c’è una vera necessità. È ciò che si è evidenziato da solo in questi anni in cui ho scritto, messo da parte, riletto e in cui ho suonato molto e dedicato molto della mia vita ai concerti e alle collaborazioni. Tutto questo mi ha portato a scrivere di donne forti, rivoluzionarie, che comunque non sono necessariamente famose, anche se cito Frida Kahlo, Tina Modotti, la Montalcini o la Betancourt, donne che rappresentano dei grandi punti di riferimento. Mi piace pensare che le “mie donne” conducono una vita quotidiana di grandi difficoltà, che superano con grande forza; donne che non si lasciano per vinte, ma non rinunciano al proprio scopo, al proprio ideale, al proprio obiettivo e all’affermazione di se stesse, alla propria vita. Donne che combattono e riescono con un sorriso a superare i momenti di malinconia. Mi piace raccontare di loro.
Qual è il messaggio principale contenuto nei brani?
Chi ascolta le canzoni si fa il suo, ognuno interpreta il suo modo di ascoltare la canzone. C’è un modo da parte mia di descrivere un certo tipo di donne con le quali mi rispecchio. Donne che vorrei avessero in mano la situazione, anche politica. Donne che rispetto e che stimo, però non c’è un unico messaggio in “Musa”.
Perchè hai voluto inserire la cover di “Mare verticale” di Paolo Benvegnù?
Perché è una canzone meravigliosa e perché credo che quando si rifà una canzone bisogna ricantarla in chiave personale, non simile all’originale. Il motivo di rifarla è che la sentivo sulle mie corde. Sentivo di poter dare un’interpretazione e cercare di rendere bella la mia versione, anche perché il pezzo è già bello di suo.
“Donna che parla in fretta” è tratta dal poema di Ann Waldman “Fast Speaking Woman”. Come si evoluta l’idea di renderla una canzone?
Il poema lo conoscevo da tempo e mi è sempre piaciuto. Ha dei momenti molti duri, molto crudi, importanti. Era quasi d’obbligo sceglierlo, perché rappresenta un periodo storico. Come donna mi sentivo quasi in dovere riprenderlo e riportare le parti che più mi interessavano, che rappresentavano me stessa e il periodo storico che viviamo. L’ho scelto per questo motivo fino a farne una canzone.
L’album si chiude con “Regina Reginella”, la filastrocca per bambini, come mai?
Essendo io una donna molto estrema, la mia idea era quella di usare il contrasto che c’è nella filastrocca, che apparentemente è una filastrocca per bambini, ma che nasconde un messaggio politico non indifferente. Cioè, la conosci la filastrocca? La facevi da bambino?
Sì, ma questo aspetto, francamente, non l’avevo preso in considerazione (ridiamo, ndr).
Se ci rifletti bene, il gioco è improntato sul potere di una persona sola, di una regina. Questa ha il potere decisionale di far avvicinare o meno qualcuno a seconda del proprio giudizio. C’è in questo un lato abbastanza perfido, nel senso che può far avvicinare qualcuno fino quasi all’arrivo, per poi farlo retrocedere a suo giudizio. M’intrigava molto la cosa, perché c’è uno sfondo molto, molto più forte di quello che si vede in superficie. Questo contrasto tra la filastrocca, apparentemente giocosa, e le voci dei bambini utilizzate in maniera surreale creava questo contrasto che ho sottolineato con le percussioni, che entrano nel brano una dopo l’altra come i personaggi del gioco.
Alcuni brani sono scritti con Filippo Gatti. Mi parli del vostro modo di lavorare insieme?
Stranamente siamo riusciti a trovare una complicità femminile. Abbiamo vinto l’imbarazzo della scrittura a due e ci siamo divertiti.
Femminile?
Sì, io continuo a dirlo, ma lui non lo sa (ride, ndr).
Cosa volevi ottenere sotto il profilo prettamente musicale?
Un suono molto vicino alla creazione dei pezzi, non volevo un suono artefatto che fosse distante dall’immediatezza della scrittura dei brani quando li ho appuntati la prima volta, con voce, chitarra acustica e chitarra elettrica. Quasi tutte le chitarre sono rimaste quelle.
Nell’album s’avverte netta una sensazione di serenità e d’idee chiare. Questo riflette il tuo stato personale?
Sì, sono una persona serena, non nascondo anche le mie difficoltà, anche se di base ho le idee chiare. Quello che volevo scrivere per questo disco l’ho fatto in totale libertà, non mi sono posta se una frase potesse piacere o meno, se potesse andar bene o no. Ho scritto principalmente perché potesse piacere innanzitutto a me.
C’entra qualcosa lo yoga?
No, per la scrittura dei testi per niente. Lo yoga mi aiuta nella respirazione, dal vivo ho una grande resistenza, anche perchè suonare la batteria e cantare insieme non è proprio come stare seduto e fumare una sigaretta. Quello che faccio io, l’astanga, credo sia uno yoga che aiuta molto l’accettazione di te stesso anche nei momenti di difficoltà. Lo yoga ti aiuta ad accettare che quel momento di difficoltà c’è e ti aiuta a superarlo, a essere paziente e a saper aspettare.
“Musa” rappresenta, nella tua carriera, una nuova partenza?
Ogni disco sembra un motivo di ripartenza. Nel senso che anche da tutte le interviste che fai sembra che sei stato sulla Luna e sei tornato.
Cos’è per te una musa?
È una donna di grande fonte d’ispirazione, ma non ce n’è una in particolare, quelle che ho nominato finora sono tutte delle muse. Obiettivamente, una come Benazir Bhutto non può non esserlo stato, o non so, Luciana Sgrena, ce ne sono tante…
Quanto danno fastidio le donne capaci?
Molto. Ma più che fastidio fanno paura. Oggi c’è lo stereotipo impaurito da questa donna, incredibilmente libera, indipendente sotto ogni aspetto, anche economico, come se fosse un fatto straordinario. Forse eravamo troppo abituati all’idea della donna che sta a casa e si occupa solo di quello. Anche una casalinga è una rivoluzionaria, ho il totale rispetto per le donne che sostengono una famiglia, perché, per quanto mi riguarda, la donna è il collante della famiglia, ma da quando la donna, tra virgolette, si è emancipata ha preso la sua strada anche lavorativa e quindi si è creato una sorta di non equilibrio, quindi adesso si dice che questa donna fa paura.
Ti senti una donna fuori dagli schemi?
Io mi sento una donna fuori dagli schemi e dentro gli schemi, quasi in momenti opposti. Nel senso che mi sento fuori dagli schemi quando quello che faccio è di assoluta normalità, come quando la sera sto a casa con mio figlio a leggere un libro. In realtà non so cosa significhi essere fuori dagli schemi, quello che so è che mi sento, e voglio sempre esserlo, una donna libera di esprimermi come meglio credo, di dare il meglio di me e di dare valore alla mia vita.
Molti si chiedono che fine hai fatto in questo ultimo periodo.
Questo però dipende dalle persone che ascoltano. Se sono persone che abitualmente guardano la tv è normale. Ma hai visto chi ci va in tv? Io non ci vado. Vado laddove c’è musica, dove si fa musica o si parla di certi argomenti. Preferisco fare un’apparizione ogni tanto che andare dove non ci sono argomenti concreti. La gente è abituata a valutare la visibilità televisiva pari al lavoro che fai, ma non è così.
Pensi che il grande pubblico abbia un’idea sbagliata riguardo il tuo modo di fare musica?
La gente ha e si fa delle grandi illusioni, magari vede un cantante che va in televisione e si fa delle idee sbagliate. La tv è un mezzo molto potente, che crea delle grandi illusioni, le crea nei giovani, nelle persone che non sono abituate a mettere un velo tra quello che c’è in tv e la realtà. Quello che succede in tv, tolte alcune cose, succede solo in tv, la vita quotidiana è un’altra. Per cui quando ti vedono in tv si fanno delle idee sbagliate, ecco là che nel momento in cui non ci vai o fai cose diverse e comunque non fai programmi di un certo profilo allora si chiedono: da quanto tempo Marina Rei non fa dischi? Semplicemente da quattro anni, ma nel frattempo ho comunque suonato, cioè fatto quello che in realtà dovrebbe fare un musicista anziché andare a perdere tempo.
Parteciperai ai concerti "Tutti insieme per l'Aquila", a Teramo il 31 maggio, e "Amiche per l'Abruzzo", il 21 giugno allo Stadio San Siro. In che modo sei stata colpita dal dramma del terremoto?
Penso che abbia colpito chiunque, è stata una cosa troppo importante, dannosa, ha tolto la vita, le case, ha tolto una grande speranza, quindi ha colpito tutti noi. Avendo sentito la prima scossa da Roma, mi sono spaventata a morte, l’ho sentita fortissima, ero nel panico, non sapevo se catapultami fuori. In quel momento ho immaginato cosa hanno provato loro là. Ovviamente la paura si è amplificata. Alla fine questi concerti sono delle grandi occasioni, in primo luogo di aiuto economico, ma poi di attenzione. Queste cose lo sai come vanno, la gente poi dimentica negli anni, lo Stato tende a dimenticare, tutti tendiamo a dimenticare, ma la gente colpita non dimentica, quindi finché si può accentrare l’attenzione su un problema è giusto farlo.
In ultimo, mi dai un consiglio per gli uomini?
Non ce li ho, me ne diano uno loro a me. La bella cosa degli uomini è la gentilezza, l’attenzione che hanno nei nostri confronti. Mi piace la cortesia, mi piace la dolcezza, quindi bisognerebbe rivalutare queste grandi doti maschili, troppo spesso messe da parte per paura di farle sembrare dei lati deboli, mentre sono lati meravigliosi.

Guilherme Monteiro: Air

Il chitarrista Guilherme Monteiro, malgrado si contorni di musicisti di spessore tra i quali spicca il tenorista Jerome Sabbagh, rilascia un buon album, ma non completamente messo a fuoco, vago nelle intenzioni e negli sviluppi.
Non che Air manchi di spessore stilistico e capacità interpretativa, ma sembra risentire - paradossalmente, va da sé - della doppia natura del leader, che esprimendosi in alternanza con l'acustica e lo strumento elettrico crea una specie di dicotomia, di inevitabile spaccatura tra i dieci brani proposti.

Gruppo Q: Live in China

Fotografati nel booklet sulla Grande Muraglia, i cinque componenti del Gruppo Q riversano nel loro Live in China le istantanee musicali della tournée affrontata davanti al pubblico cinese nell'aprile 2008.
Dodici brani registrati in varie location e senza sovraincisioni che ci fanno apprezzare una band con diverse caratteristiche positive. Innanzi tutto la voglia di attualizzare una filosofia jazzistica ancora alla ricerca del proprio presente, con l'introduzione di elementi elettronici sulla struttura di base prevalentemente acustica. In secondo luogo, i bei dialoghi che il trombonista Michele Benvenuti instaura con gli altri musicisti, conferendo all'intero lavoro un carattere preciso e ben delineato.

Tom Scott: Cannon Re-Loaded

Folgorato in giovane età dalle performance di Julian Adderley nei classicissimi Milestones e Kind of Blue, Tom Scott rende omaggio alla figura immortale del saxofonista di Tampa con un album raffinato e senza smagliature.
In Cannon Re-Loaded Scott mette insieme una scintillante formazione di all-star composta dal trombettista Terence Blanchard, sugli scudi in più occasioni; l'irreprensibile George Duke al piano; e una ritmica capace di unire tradizione e attualità composta da Marcus Miller e Steve Gadd. Come se non bastasse, a completare una band di caratura assoluta, vanno segnalati gli interventi all'organo B3 di Larry Goldings e soprattutto la voce elegantissima di Nancy Wilson, ospite in due brani.

Luciano “Varnadi” Ceriello - Radio Varnadi

Anche se già utilizzata in passato da altri, quella di Luciano “Varnadi” Ceriello rimane comunque una buona idea: racchiudere le tredici canzoni del suo quarto album sottoforma di una trasmissione radiofonica, dal notiziario del mattino ai saluti finali in tarda serata, con speaker che annunciano le track, richieste degli ascoltatori, spot commerciali, segnale orario e cazzeggio contenuto.
Il suo “Radio Varnadi” vanta la partecipazione di molti ospiti, sia del mondo musicale come Mauro Palermo, già chitarrista di Vasco Rossi, sia dello spettacolo in genere, dal poliedrico Andrea Roncato alla pornostar Lea Di Leo (tranquilli maschietti, è solo un cameo e nessun video tra i bonus).
Ne viene fuori un lavoro dal sapore pop arricchito di sottintesi divertenti (“Come la mia Barbie”), dove il cantautore veneto-campano si alterna tra momenti ancorati alla realtà (“Francesca”, dedicata a sua figlia) a slanci rappati (“La protesta”), e tutta una serie di prese di posizione riguardo argomenti d’attualità e di vita in genere. Si parla di sesso, di donne e quotidianità in ordine sparso, scavando nei significati pur riuscendo a mantenere un andamento brioso, colorato, col sorriso sulle labbra. Insomma, durante l’ascolto ci si diverte, ma si è anche chiamati a delle piccole riflessioni.
Con quest’album Ceriello si conferma artista capace di cavalcare diverse onde stilistiche, di forma e altezza variabili, e soprattutto di mettersi a distanza regolamentare dalle consuetudini e dall’omologazione del pop tricolore.

Mircanto - Le Finestre Sono Aperte

Tra i tanti promo che si accatastano sulle nostre scrivanie, ogni tanto ne salta fuori uno meritevole di essere archiviato in maniera degna, magari vicino a un Fossati d’annata o un Niccolò Fabi recente.
È il caso del cd “Le finestre sono aperte” messo al mondo dai Mircanto, progetto cantautorale che fa leva sui testi di Daniele Nava, il quale, per rappresentare la sua idea musicale, si contorna di musicisti e amici del Caffè Letterario di Bergamo, tra profumo di libri e cultura quotidiana.
Copertina fatta di un bianco e nero desertico che si riflette anche all’interno di sette canzoni essenziali, eleganti e decisamente chiaroscurali. Un bianco e nero piacevole che affiora fin dalla prima battuta di “Da consumarsi”, con la voce di Daniele sempre in punta di tonalità minore, pronta a scandire parole e visioni su accordi di chitarra adagiati su ritmica esile, quasi impalpabile. Buoni i passaggi tra una traccia e l’altra che tendono a formare una linea di continuità tenue, ma ben definita e ricca di spunti di riflessione.
Certo, stiamo parlando di una pietra grezza, piena di asperità che andranno levigate col tempo, ma per il momento ci sentiamo di sottolineare la valenza di un progetto di buona intenzione.