lunedì 10 agosto 2009

Zu: intervista

Gli Zu sono uno di quei gruppi ai quali voler per forza affibbiare un solo aggettivo, e tanto meno uno stile musicale definito, è un esercizio che oscilla tra l’inutile e il ridicolo. Il trio – Luca Mai (sax baritono), Massimo Pupillo (basso) e Jacopo Battaglia (batteria) – si muove da dodici anni senza farsi problemi di frontiere e barriere espressive, riuscendo a ottenere un suono e un’originalità che per molti rimarrà per sempre una chimera. In occasione del nuovo lavoro “Carboniferous”, uscito per la Ipecac di Mike Patton, abbiamo chiesto alla band romana di favorirci il loro passaporto musicale.

Cosa ha in più “Carboniferous” rispetto agli album precedenti?
“Carboniferous” è la summa di dieci anni di lavoro, la materializzazione di un’idea di suono che agli inizi non era ben chiara, ma che si è definita via via attraverso un duro e incessante lavoro live e una conoscenza dei materiali presenti negli studi di registrazione, nonché il fatto di voler allargare il nostro spettro sonoro, che essendo in tre necessita di un continuo lavoro di ricerca. Infine, appunto perché in tre, l’approccio allo strumento si è fatto più versatile e l’idea di strumento solista non è appannaggio solo di uno di noi, ma cambia continuamente, quindi può capitare che la batteria è lo strumento solista nonché melodico e il sax porta il tempo e viceversa con il basso. “Carboniferous” è un corpus unico con differenti stratificazioni che si compenetrano vicendevolmente senza che questo distolga l’attenzione dall’idea che lo sottintende.

Quanto avete impiegato per realizzarlo e come si è svolto il processo in studio?
Nello specifico ci sono voluti quasi due anni. L’ultimo anno lo abbiamo passato praticamente tutti i giorni chiusi in sala a comporre 5/6 ore pomeridiane di media e poi partivamo i fine settimana per rodare ciò che avevamo fatto precedentemente. Se c’era qualcosa che non funzionava lo riprendevamo il lunedì successivo. Devo dire che il processo creativo negli ultimi anni è diventato più o meno come diceva Picasso: «non cerchiamo più, ma troviamo».

Lavorare con Mike Patton e la Ipecac in che modo vi è stato d’aiuto? Ci sono state delle restrizioni in fase di lavorazione?
Nessuna restrizione, anzi, pieno supporto e questo fa la differenza quando poi devi fare un bilancio di come è andato il disco. Ti fanno sentire con le spalle coperte nonostante l’attuale crisi discografica.

Ho letto che molto materiale composto, anche finito, viene poi scartato. Cosa deve avere un pezzo per essere considerato all’altezza per un disco degli Zu?
Deve essere abbastanza zamarro da non sfigurare quando te lo ascolti su un’Alfa 75.

C’è un passaggio musicale del quale andate fieri e perché?
Direi di no anzi, può capitare dal vivo di cambiare delle note o effettuare delle modifiche e capire che sarebbero state belle sul disco e sostituirle alle attuali. Comunque siamo soddisfatti non ti preoccupare.

Chi di voi tre è la guida, quello da cui parte lo spunto, l’incipit decisivo per dar vita alla musica?
Gli spunti partono da ognuno singolarmente, oppure quando siamo in sala escono, come ti dicevo prima, le cose le troviamo, senza che perdiamo tempo a cercare. Poi è chiaro che c’è anche un lavoro di sgrezzamento e su questo siamo abbastanza pignoli.

Sul vostro passaporto musicale, alla voce segni particolari, cosa c’è scritto?
Cafoni!

Qual è l’elemento alla base del vostro concetto di trio e come è il rapporto tra di voi al di là dell’essere musicisti?
Siamo cresciuti insieme e abbiamo condiviso molte cose extra musicali, questo ha determinato qualcosa di più solido di un semplice rapporto tra musicisti e ciò fa sì che siamo una band. Poi, come in qualsiasi matrimonio, gli scazzi ci sono sempre.

Quanto culo vi siete fatti in questi dodici anni di carriera?
Taaaanto, e si continua. Non ci sentiamo arrivati, poi dove? L’unico arrivo che abbiamo presente e che ci accomuna è la morte, quindi la nostra vita la esperiamo in termini di espansione e di sfruttamento intensivo della nostra creatività, perché il tempo è tiranno e ciò che facciamo lo facciamo non sapendo neanche noi bene perché, ma sicuramente no in termini di carriera.

Non vi è mai venuta voglia di allargare la band in via definitiva o peggio, di mandare tutto all’aria?
Ogni volta che collaboriamo con qualcuno lo consideriamo della band, non un ospite, anche perché i rapporti sono sempre improntati sull’amicizia e il rispetto e questo ci basta. Per mandare tutto a carte e quarantotto dovrebbe succedere qualcosa di molto grave e ancora non è successo e qui faccio tutti gli scongiuri possibili, ma se poi succede, buonanotte.

Cosa ha reso possibile il poter essere conosciuti all’estero?
Impegno, dedizione, capacità di adattamento a stili di vita differenti nonché essere coraggiosi a mangiarsi le sbobbe olandesi.

Il New York Times (http://www.nytimes.com/2009/02/22/arts/music/22play.html?_r=1&ref=music) parla di voi in maniera entusiastica. Poi magari potete passeggiare per Roma senza che nessuno vi riconosca appena. Come vivete questo doppio aspetto della vostra personalità musicale?
La nostra vita è sempre stata un po’ schizofrenica tanto che agli inizi capitava che facessimo un tour in Europa pieno di gratificazioni e considerazione artistica, poi tornare a casa e la sera stessa andare a mettere i manifesti in giro per Roma, incontrare degli amici e sentirsi dire: «ahò … certo che voi state sempre a Roma… nun fate proprio un cazzo nella vita…».

Venite spesso accostati al mondo del jazz. Qual è la vostra idea di improvvisazione?
Diciamo che del jazz prendiamo soprattutto quell’etica di rottura e di ricerca che ha contraddistinto gente come Coltrane, Dolphy, Ayler, Mingus e altri grandi. Ogni rottura porta con sé l’idea di una nuova costruzione, ma questo non lo facciamo consapevolmente, come se fosse un manifesto a cui aderire. Per quanto riguarda l’improvvisazione a noi serve solo come spunto, in realtà abbiamo ridotto di molto questa pratica in concerto.

(A Luca Mai) A proposito di jazz: di recente su una rivista specializzata è apparso un articolo dove sostanzialmente si dice che i giovani saxofonisti si rendono conto che è quasi impossibile estrarre un qualcosa di originale da uno strumento cha ha già svelato ogni suo mistero. Sei d’accordo?
Gli strumenti a fiato erano accostati, nell’antichità, ai misteri dionisiaci o comunque orgiastici per la capacità che avevano e hanno di smuovere l’istintualità e metterla in contatto con quel mistero che sottende alla creazione e alla energia che la guida. Marsia, narra il mito, trovato l’oboe che Atena aveva buttato perché l’aveva resa ridicola di fronte agli Dei, se ne innamorò e suonandolo tutti i giorni divenne talmente bravo che creava delle melodie che venivano reputate più belle di quelle create alla lira da Apollo. Il dio lo sfidò in una gara musicale e solo per astuzia e raggiro lo battè e meschinamente lo squoiò. Marsia si trasformò in un fiume che ha ancora il suo nome e dove crescono dei canneti ottimi per la produzione di ance. Questo per dire che il ragionamento e tutto quello a cui è correlato non può distruggere un’energia in continuo movimento e trasformazione e quindi i cosidetti giovani sassofonisti si dovrebbero concentrare di più su quanto hanno da dire loro e non il sax per loro.

Avete preso parte alla compilation “Il paese è reale” realizzata dagli Afterhours. Vi sentite così legati alla scena indie? Pensate che la partecipazione della band milanese a Sanremo potrà effettivamente deviare il corso del fiume mediatico?
Siamo dei cani sciolti e non facciamo parte di nessuna scena indie perché non esiste una scena indie. Non credo che sortirà nessun effetto la presenza degli Afterhours a Sanremo perché l’Italia è un paese fortemente conservatore e arretrato, privo di quella cultura musicale che non sia il bel canto o la classica melodia italiana fatta sui soliti tre accordi. Non c’è voglia di investire e creare un mercato che potrebbe dare i suoi frutti ed essere condivisi, perché questo porterebbe anche cultura e questo è un paese dove è oramai assente e l’unico modo in cui la si intende è come vuole quel burattino di Berlusconi, cioè “cul cul cul cultura….”. Fino a quando i cd e i libri verranno considerati beni di lusso e quindi venduti a prezzi esagerati, non potremo aspirare a niente di buono dall’alto, ma è anche vero che finché la maggior parte degli italiani si sente orgogliosa di non leggere questo paese lo possiamo considerare perduto.

Tra cento anni, quando gli Zu non ci saranno più, cosa rimarrà scritto sui libri di storia?
Se il complotto globale avrà vinto e si sarà affermato completamente il “nuovo ordine mondiale” non credo che esisteranno ancora libri, un po’ come “Farenhait 451”. Se invece succederà qualcosa di significativo nel 2012 forse leggeremo che in un paese ridicolo di nome Italia esisteva proprio nel suo cuore uno staterello di nome Vaticano che per 2000 anni ha allungato la sua ombra oscura su tutta la nazione impedendole un naturale svolgimento dei propri diritti voleri nonché libertà personali, che molta gente è morta e ha sofferto per causa loro e molti bambini sono stati vittime dei loro abusi e che per questo nessuno di loro ha mai pagato veramente, grazie a un Papa di nome Ratzinger, l’ultimo dei papi. Poi leggeremo nel capitolo musica che è esistita una centrale per delinquere che si chiamava SIAE e che i suoi maggiori artisti iscritti si mangiavano i soldi dei più piccoli. Nel capitolo rock scriveranno che esistettero i Negrita e che fu il più grande gruppo della storia italiana mentre il paragrafo relativo agli Zu sosterrà che ebbero gli onori delle cronache solo perché in un raptus sconclusionato il sassofonista tagliò, con le chiavi di casa, la frangetta del grande e famoso cantante dei Dari. Per il resto non si sa che musica facessero.

lunedì 3 agosto 2009

Marina Rei: intervista (maggio 2009)

Incontriamo Marina Rei a Roma in pomeriggio quasi surreale, caratterizzato da un acquazzone dopo tanti giorni di caldo estivo e da sparute unità di supporter del ManU che battono la ritirata, sconfitti la sera precedente dopo tante pagine di gloria.
Marina ci risponde rilassata, leggermente provata dalle interviste in agenda quel giorno, ma pronta a ribadire la valenza del nuovo album “Musa”, e la forza di un pensiero che emerge chiaro e dai contorni ben delineati.

Perché la necessità di un album come “Musa”, dedicato al mondo femminile?
Non c’è una vera necessità. È ciò che si è evidenziato da solo in questi anni in cui ho scritto, messo da parte, riletto e in cui ho suonato molto e dedicato molto della mia vita ai concerti e alle collaborazioni. Tutto questo mi ha portato a scrivere di donne forti, rivoluzionarie, che comunque non sono necessariamente famose, anche se cito Frida Kahlo, Tina Modotti, la Montalcini o la Betancourt, donne che rappresentano dei grandi punti di riferimento. Mi piace pensare che le “mie donne” conducono una vita quotidiana di grandi difficoltà, che superano con grande forza; donne che non si lasciano per vinte, ma non rinunciano al proprio scopo, al proprio ideale, al proprio obiettivo e all’affermazione di se stesse, alla propria vita. Donne che combattono e riescono con un sorriso a superare i momenti di malinconia. Mi piace raccontare di loro.
Qual è il messaggio principale contenuto nei brani?
Chi ascolta le canzoni si fa il suo, ognuno interpreta il suo modo di ascoltare la canzone. C’è un modo da parte mia di descrivere un certo tipo di donne con le quali mi rispecchio. Donne che vorrei avessero in mano la situazione, anche politica. Donne che rispetto e che stimo, però non c’è un unico messaggio in “Musa”.
Perchè hai voluto inserire la cover di “Mare verticale” di Paolo Benvegnù?
Perché è una canzone meravigliosa e perché credo che quando si rifà una canzone bisogna ricantarla in chiave personale, non simile all’originale. Il motivo di rifarla è che la sentivo sulle mie corde. Sentivo di poter dare un’interpretazione e cercare di rendere bella la mia versione, anche perché il pezzo è già bello di suo.
“Donna che parla in fretta” è tratta dal poema di Ann Waldman “Fast Speaking Woman”. Come si evoluta l’idea di renderla una canzone?
Il poema lo conoscevo da tempo e mi è sempre piaciuto. Ha dei momenti molti duri, molto crudi, importanti. Era quasi d’obbligo sceglierlo, perché rappresenta un periodo storico. Come donna mi sentivo quasi in dovere riprenderlo e riportare le parti che più mi interessavano, che rappresentavano me stessa e il periodo storico che viviamo. L’ho scelto per questo motivo fino a farne una canzone.
L’album si chiude con “Regina Reginella”, la filastrocca per bambini, come mai?
Essendo io una donna molto estrema, la mia idea era quella di usare il contrasto che c’è nella filastrocca, che apparentemente è una filastrocca per bambini, ma che nasconde un messaggio politico non indifferente. Cioè, la conosci la filastrocca? La facevi da bambino?
Sì, ma questo aspetto, francamente, non l’avevo preso in considerazione (ridiamo, ndr).
Se ci rifletti bene, il gioco è improntato sul potere di una persona sola, di una regina. Questa ha il potere decisionale di far avvicinare o meno qualcuno a seconda del proprio giudizio. C’è in questo un lato abbastanza perfido, nel senso che può far avvicinare qualcuno fino quasi all’arrivo, per poi farlo retrocedere a suo giudizio. M’intrigava molto la cosa, perché c’è uno sfondo molto, molto più forte di quello che si vede in superficie. Questo contrasto tra la filastrocca, apparentemente giocosa, e le voci dei bambini utilizzate in maniera surreale creava questo contrasto che ho sottolineato con le percussioni, che entrano nel brano una dopo l’altra come i personaggi del gioco.
Alcuni brani sono scritti con Filippo Gatti. Mi parli del vostro modo di lavorare insieme?
Stranamente siamo riusciti a trovare una complicità femminile. Abbiamo vinto l’imbarazzo della scrittura a due e ci siamo divertiti.
Femminile?
Sì, io continuo a dirlo, ma lui non lo sa (ride, ndr).
Cosa volevi ottenere sotto il profilo prettamente musicale?
Un suono molto vicino alla creazione dei pezzi, non volevo un suono artefatto che fosse distante dall’immediatezza della scrittura dei brani quando li ho appuntati la prima volta, con voce, chitarra acustica e chitarra elettrica. Quasi tutte le chitarre sono rimaste quelle.
Nell’album s’avverte netta una sensazione di serenità e d’idee chiare. Questo riflette il tuo stato personale?
Sì, sono una persona serena, non nascondo anche le mie difficoltà, anche se di base ho le idee chiare. Quello che volevo scrivere per questo disco l’ho fatto in totale libertà, non mi sono posta se una frase potesse piacere o meno, se potesse andar bene o no. Ho scritto principalmente perché potesse piacere innanzitutto a me.
C’entra qualcosa lo yoga?
No, per la scrittura dei testi per niente. Lo yoga mi aiuta nella respirazione, dal vivo ho una grande resistenza, anche perchè suonare la batteria e cantare insieme non è proprio come stare seduto e fumare una sigaretta. Quello che faccio io, l’astanga, credo sia uno yoga che aiuta molto l’accettazione di te stesso anche nei momenti di difficoltà. Lo yoga ti aiuta ad accettare che quel momento di difficoltà c’è e ti aiuta a superarlo, a essere paziente e a saper aspettare.
“Musa” rappresenta, nella tua carriera, una nuova partenza?
Ogni disco sembra un motivo di ripartenza. Nel senso che anche da tutte le interviste che fai sembra che sei stato sulla Luna e sei tornato.
Cos’è per te una musa?
È una donna di grande fonte d’ispirazione, ma non ce n’è una in particolare, quelle che ho nominato finora sono tutte delle muse. Obiettivamente, una come Benazir Bhutto non può non esserlo stato, o non so, Luciana Sgrena, ce ne sono tante…
Quanto danno fastidio le donne capaci?
Molto. Ma più che fastidio fanno paura. Oggi c’è lo stereotipo impaurito da questa donna, incredibilmente libera, indipendente sotto ogni aspetto, anche economico, come se fosse un fatto straordinario. Forse eravamo troppo abituati all’idea della donna che sta a casa e si occupa solo di quello. Anche una casalinga è una rivoluzionaria, ho il totale rispetto per le donne che sostengono una famiglia, perché, per quanto mi riguarda, la donna è il collante della famiglia, ma da quando la donna, tra virgolette, si è emancipata ha preso la sua strada anche lavorativa e quindi si è creato una sorta di non equilibrio, quindi adesso si dice che questa donna fa paura.
Ti senti una donna fuori dagli schemi?
Io mi sento una donna fuori dagli schemi e dentro gli schemi, quasi in momenti opposti. Nel senso che mi sento fuori dagli schemi quando quello che faccio è di assoluta normalità, come quando la sera sto a casa con mio figlio a leggere un libro. In realtà non so cosa significhi essere fuori dagli schemi, quello che so è che mi sento, e voglio sempre esserlo, una donna libera di esprimermi come meglio credo, di dare il meglio di me e di dare valore alla mia vita.
Molti si chiedono che fine hai fatto in questo ultimo periodo.
Questo però dipende dalle persone che ascoltano. Se sono persone che abitualmente guardano la tv è normale. Ma hai visto chi ci va in tv? Io non ci vado. Vado laddove c’è musica, dove si fa musica o si parla di certi argomenti. Preferisco fare un’apparizione ogni tanto che andare dove non ci sono argomenti concreti. La gente è abituata a valutare la visibilità televisiva pari al lavoro che fai, ma non è così.
Pensi che il grande pubblico abbia un’idea sbagliata riguardo il tuo modo di fare musica?
La gente ha e si fa delle grandi illusioni, magari vede un cantante che va in televisione e si fa delle idee sbagliate. La tv è un mezzo molto potente, che crea delle grandi illusioni, le crea nei giovani, nelle persone che non sono abituate a mettere un velo tra quello che c’è in tv e la realtà. Quello che succede in tv, tolte alcune cose, succede solo in tv, la vita quotidiana è un’altra. Per cui quando ti vedono in tv si fanno delle idee sbagliate, ecco là che nel momento in cui non ci vai o fai cose diverse e comunque non fai programmi di un certo profilo allora si chiedono: da quanto tempo Marina Rei non fa dischi? Semplicemente da quattro anni, ma nel frattempo ho comunque suonato, cioè fatto quello che in realtà dovrebbe fare un musicista anziché andare a perdere tempo.
Parteciperai ai concerti "Tutti insieme per l'Aquila", a Teramo il 31 maggio, e "Amiche per l'Abruzzo", il 21 giugno allo Stadio San Siro. In che modo sei stata colpita dal dramma del terremoto?
Penso che abbia colpito chiunque, è stata una cosa troppo importante, dannosa, ha tolto la vita, le case, ha tolto una grande speranza, quindi ha colpito tutti noi. Avendo sentito la prima scossa da Roma, mi sono spaventata a morte, l’ho sentita fortissima, ero nel panico, non sapevo se catapultami fuori. In quel momento ho immaginato cosa hanno provato loro là. Ovviamente la paura si è amplificata. Alla fine questi concerti sono delle grandi occasioni, in primo luogo di aiuto economico, ma poi di attenzione. Queste cose lo sai come vanno, la gente poi dimentica negli anni, lo Stato tende a dimenticare, tutti tendiamo a dimenticare, ma la gente colpita non dimentica, quindi finché si può accentrare l’attenzione su un problema è giusto farlo.
In ultimo, mi dai un consiglio per gli uomini?
Non ce li ho, me ne diano uno loro a me. La bella cosa degli uomini è la gentilezza, l’attenzione che hanno nei nostri confronti. Mi piace la cortesia, mi piace la dolcezza, quindi bisognerebbe rivalutare queste grandi doti maschili, troppo spesso messe da parte per paura di farle sembrare dei lati deboli, mentre sono lati meravigliosi.

Guilherme Monteiro: Air

Il chitarrista Guilherme Monteiro, malgrado si contorni di musicisti di spessore tra i quali spicca il tenorista Jerome Sabbagh, rilascia un buon album, ma non completamente messo a fuoco, vago nelle intenzioni e negli sviluppi.
Non che Air manchi di spessore stilistico e capacità interpretativa, ma sembra risentire - paradossalmente, va da sé - della doppia natura del leader, che esprimendosi in alternanza con l'acustica e lo strumento elettrico crea una specie di dicotomia, di inevitabile spaccatura tra i dieci brani proposti.

Gruppo Q: Live in China

Fotografati nel booklet sulla Grande Muraglia, i cinque componenti del Gruppo Q riversano nel loro Live in China le istantanee musicali della tournée affrontata davanti al pubblico cinese nell'aprile 2008.
Dodici brani registrati in varie location e senza sovraincisioni che ci fanno apprezzare una band con diverse caratteristiche positive. Innanzi tutto la voglia di attualizzare una filosofia jazzistica ancora alla ricerca del proprio presente, con l'introduzione di elementi elettronici sulla struttura di base prevalentemente acustica. In secondo luogo, i bei dialoghi che il trombonista Michele Benvenuti instaura con gli altri musicisti, conferendo all'intero lavoro un carattere preciso e ben delineato.

Tom Scott: Cannon Re-Loaded

Folgorato in giovane età dalle performance di Julian Adderley nei classicissimi Milestones e Kind of Blue, Tom Scott rende omaggio alla figura immortale del saxofonista di Tampa con un album raffinato e senza smagliature.
In Cannon Re-Loaded Scott mette insieme una scintillante formazione di all-star composta dal trombettista Terence Blanchard, sugli scudi in più occasioni; l'irreprensibile George Duke al piano; e una ritmica capace di unire tradizione e attualità composta da Marcus Miller e Steve Gadd. Come se non bastasse, a completare una band di caratura assoluta, vanno segnalati gli interventi all'organo B3 di Larry Goldings e soprattutto la voce elegantissima di Nancy Wilson, ospite in due brani.

Luciano “Varnadi” Ceriello - Radio Varnadi

Anche se già utilizzata in passato da altri, quella di Luciano “Varnadi” Ceriello rimane comunque una buona idea: racchiudere le tredici canzoni del suo quarto album sottoforma di una trasmissione radiofonica, dal notiziario del mattino ai saluti finali in tarda serata, con speaker che annunciano le track, richieste degli ascoltatori, spot commerciali, segnale orario e cazzeggio contenuto.
Il suo “Radio Varnadi” vanta la partecipazione di molti ospiti, sia del mondo musicale come Mauro Palermo, già chitarrista di Vasco Rossi, sia dello spettacolo in genere, dal poliedrico Andrea Roncato alla pornostar Lea Di Leo (tranquilli maschietti, è solo un cameo e nessun video tra i bonus).
Ne viene fuori un lavoro dal sapore pop arricchito di sottintesi divertenti (“Come la mia Barbie”), dove il cantautore veneto-campano si alterna tra momenti ancorati alla realtà (“Francesca”, dedicata a sua figlia) a slanci rappati (“La protesta”), e tutta una serie di prese di posizione riguardo argomenti d’attualità e di vita in genere. Si parla di sesso, di donne e quotidianità in ordine sparso, scavando nei significati pur riuscendo a mantenere un andamento brioso, colorato, col sorriso sulle labbra. Insomma, durante l’ascolto ci si diverte, ma si è anche chiamati a delle piccole riflessioni.
Con quest’album Ceriello si conferma artista capace di cavalcare diverse onde stilistiche, di forma e altezza variabili, e soprattutto di mettersi a distanza regolamentare dalle consuetudini e dall’omologazione del pop tricolore.

Mircanto - Le Finestre Sono Aperte

Tra i tanti promo che si accatastano sulle nostre scrivanie, ogni tanto ne salta fuori uno meritevole di essere archiviato in maniera degna, magari vicino a un Fossati d’annata o un Niccolò Fabi recente.
È il caso del cd “Le finestre sono aperte” messo al mondo dai Mircanto, progetto cantautorale che fa leva sui testi di Daniele Nava, il quale, per rappresentare la sua idea musicale, si contorna di musicisti e amici del Caffè Letterario di Bergamo, tra profumo di libri e cultura quotidiana.
Copertina fatta di un bianco e nero desertico che si riflette anche all’interno di sette canzoni essenziali, eleganti e decisamente chiaroscurali. Un bianco e nero piacevole che affiora fin dalla prima battuta di “Da consumarsi”, con la voce di Daniele sempre in punta di tonalità minore, pronta a scandire parole e visioni su accordi di chitarra adagiati su ritmica esile, quasi impalpabile. Buoni i passaggi tra una traccia e l’altra che tendono a formare una linea di continuità tenue, ma ben definita e ricca di spunti di riflessione.
Certo, stiamo parlando di una pietra grezza, piena di asperità che andranno levigate col tempo, ma per il momento ci sentiamo di sottolineare la valenza di un progetto di buona intenzione.