mercoledì 7 luglio 2010

Intervista a Roberto Gatto

Venti minuti con la storia del jazz italiano: intervista a Roberto Gatto
Pubblicato: July 6, 2010


di Roberto Paviglianiti [Posta un commento] Commenta [Stampa] [Invia questo articolo per email] [Iscriviti]

Quando Roberto Gatto mette giù la cornetta il nostro registratore segna venti minuti e zero secondi, spaccati. Un lasso di tempo sufficiente per saperne di più sulla sua ultima uscita discografica Remembering Shelly, un omaggio al batterista Shelly Manne; fare quattro passi attraverso una storia importante, quella del jazz italiano degli ultimi trent'anni; dare un'occhiata al presente e curiosare nel cantiere di qualche progetto futuro. Insomma, venti minuti passati dentro la musica.

All About Jazz Italia: Un batterista che omaggia un altro batterista rileggendone alcune pagine importanti. Cosa ti ha portato a dar vita ad un progetto come Remembering Shelly e in che modo hai cercato di riproporre la musica di Manne in maniera originale?

Roberto Gatto: È un omaggio alla musica del quintetto di Shelly Manne, non direttamente a Shelly Manne. È un modo per riproporre un repertorio che nessuno prima di me aveva mai riproposto. Quello di una band che era in attività tra il 1959 e il 1961 e che proponeva brani originali scritti dai vari componenti del gruppo. L'idea era quella di suonare una serata di standard senza suonare degli standard (il disco è stato registrato dal vivo all'Alexanderplatz di Roma, N.d.R.). Non so se sia originale o meno, ma un musicista di jazz contemporaneo, visto che suona questa musica, ha il dovere di ricordare e riproporre repertori dei grandi della musica del jazz. L'ho fatto con Miles, ora con Manne e lo continuerò a fare. È come dire: «che originalità c'è nel riproporre la Quinta di Shostakovich dopo 75 anni che è morto?». Eppure continuano a suonarla. Il jazz è come la musica classica; il jazz del periodo di Manne lo si può continuare a suonare ad libitum, altrimenti se si dimentica quel tipo di provenienza si perde il filo del discorso.

AAJ: Qual è il punto di contatto tra te e Shelly Manne dal punto di vista prettamente batteristico? C'è qualcosa che vi rende simili?

R.G.: Trovo di sì, e questo l'ho scoperto strada facendo. Lui era un arrangiatore e compositore, un musicista che spaziava da Ornette Coleman a Bill Evans, alle grandi orchestre. Era molto curioso e suonava in molti contesti: era un musicista. Credo di essere un musicista prima che un batterista, e lui era uno dei batteristi più musicisti del suo periodo e ha lasciato molte documentazioni di questa versatilità, attraverso dischi molto diversi: dal trio di Sonny Rollins alla musica d'avanguardia, al duo con André Previn fino a tutto il jazz californiano. È la versatilità la cosa che mi accomuna a lui, sicuramente.

AAJ: Hai dovuto trascrivere l'intero repertorio in mancanza di spartiti. Quanto hai impiegato per gettare le basi per questo progetto?

R.G.: Circa un mese e mezzo, con molta calma, nei ritagli di tempo. Quel quintetto suonava una musica organizzata e strutturata, con l'idea di una piccola big-band, come molti dei gruppi di quel periodo. Ho addirittura chiesto agli amici della moglie di Shelly Manne se esistevano partiture del quintetto, invece mi hanno detto che non c'era niente, quindi evidentemente loro provavano e registravano così, abbastanza all'impronta. Erano tutti dei super professionisti, assimilavano presto il repertorio e suonavano a memoria. Siccome da nessuna parte si poteva rintracciare qualcosa di scritto, mi sono dovuto mettere lì a trascrivere; un lavoro anche divertente tutto sommato.

AAJ: In Remembering Shelly i musicisti che hai scelto hanno espresso al meglio le proprie potenzialità. In che modo un leader riesce a coinvolgere e trarre il massimo dai componenti di una band?

R.G.: Facendoli appassionare. Essendo tutti giovani, per loro è stata una scoperta. Sembra incredibile, ma alcuni non avevano mai sentito nominare i musicisti di quella band. Per esempio Max Ionata non conosceva Richie Kamuca, che è stato uno dei migliori saxofonisti della West Coast, dicendo: «come è possibile che suono il tenore, studio Rollins e Coltrane e non conosco un super saxofonista come questo?». Li ho messi di fronte a una musica che non conoscevano, si sono appassionati, perché è un bellissimo repertorio, suonato con grande swing, grande freschezza. È una musica molto divertente, quando poi l'abbiamo tradotta dalla carta alla dimensione suonata ci siamo accorti che ancora adesso funziona benissimo. I ragazzi si sono poi documentati, sono andati a vedere tutte le cose che ci sono su internet, dove si possono trovare filmati di pezzi mai registrati. Ho chiesto loro di realizzare un tributo il più possibile filologico, perché né si può prendere quel repertorio e cercare di riarrangiarlo (è una cosa folle dal momento che è arrangiato così bene), né di cercare di modernizzarlo in qualche modo. Bisogna suonare calandosi nell'atmosfera di quel periodo, ed era proprio quello che volevo. Non ho detto loro di fare una cover, ma di suonare in stile rimanendo se stessi. Che poi è quello che è uscito fuori. Il suono del disco è un suono riproposto dal vivo, molto asciutto, di una dimensione che mi riportava un po' a quegli anni. Voleva essere un tributo scientifico.

“Non mi piace il buonismo nella musica, eccedere in cose sdolcinate e ruffiane, voglio che ci siano sempre grande rigore e rispetto”

AAJ: Di recente, oltre alla pubblicazione di Remembering Shelly sei stato protagonista di altre uscite discografiche. Pensiamo al primo disco ufficiale dal Trio di Roma, con Danilo Rea e Enzo Pietropaoli. Che ricordo hai del jazz italiano dei vostri esordi?

R.G.: C'era molto poco jazz in quel periodo. C'erano pochi punti di riferimento, e immagino i giovani d'oggi quanto possano essere fortunati in questo senso, hanno tutto, qualsiasi supporto. A quel tempo i pochi musicisti che c'erano per noi erano fondamentali, per imparare e trarre ispirazione. Scena che non ha nulla a che vedere con quella di adesso. A Roma, per esempio, c'era un pianista, un contrabbassista, forse due batteristi, un trombettista: fine del jazz a Roma. In Italia c'era qualcuno a Milano e Bologna; era una scena povera, ma c'era un grandissimo entusiasmo. Poi c'è stato un periodo di crescita spaventosa, fino ai giorni d'oggi. Il periodo degli anni Settanta è stato il più difficile, perché non esistevano strutture. Umbria Jazz, se non sbaglio, iniziò nel '73, ed è stato il primo festival popolare, di massa, internazionale. Prima forse c'era solo il Festival Jazz di Sanremo, ma era un posto dove pochi, una piccola élite aveva la possibilità di andare. Quindi la nostra generazione ha dato la partenza a tutti. È stata una generazione importante la mia, di Danilo Rea di Pieranunzi, di Massimo Urbani. In quella attuale ci sono musicisti giovani che suonano già in maniera sorprendente.

AAJ: C'è qualcuno che ha catturato la tua attenzione?

R.G.: Ce ne sono diversi. In Italia c'è una scena di musicisti molto giovani, ne cito uno che ho avuto recentemente con me nei I-Jazz Ensemble: Alessandro Lanzoni, un pianista di diciotto anni che ha un talento straordinario, che di solito suona con un altro giovane interessante, il contrabbasista Gabriele Evangelista, toscano come lui. Metterei anche, seppur meno giovani, Max Ionata e Giovanni Falzone. All'estero c'è Brad Mehldau, che continua a essere tra i miei pianisti preferiti, Dave Douglas, ma anche Donny McCaslin e Chris Potter: non sono più giovanissimi, ma di iper-giovani c'è un fantastico chitarrista di New York che si chiama Johnathan Kreisberg, molto forte, e anche Mike Moreno, Aaron Parks e altri.

AAJ: Sei consapevole di essere una delle icone del jazz italiano di sempre?

R.G.: Gli anni iniziano a farmi capire questo fatto, anche se io sono assolutamente sempre a lavoro e in attività più di sempre, con l'entusiasmo anche maggiore di quando ero giovane. Però andando indietro mi rendo conto di aver fatto tanto. Non so se sono un'icona, ma sicuramente un punto di riferimento, credo e spero, importante per i più giovani.

AAJ: Un consiglio da dare a un giovane batterista?

R.G.: Questa musica si fa al meglio avendo grande passione, non esistono altre cose. Ho sempre detto che la passione è quello che ti fa fare un lungo viaggio per andare a sentire un concerto, cosa che io e altri abbiamo fatto, spendere quei pochi soldi che uno ha quando si è giovani per comprare dei dischi. Chiedendo consiglio ai grandi musicisti ed essendo sempre dentro alla musica, assorbendo tutto quello che c'è intorno al jazz, e c'è veramente tanto. È una musica che va studiata, non si vive solo il momento del concerto, è quanto uno gli dedica a livello di studio e di ricerca continua. Ascoltare e scoprire quelli che ci sono stati prima di noi, scoprire il jazz di una volta e tutti gli anelli di congiunzione tra un genere e un altro, i maestri che hanno fatto questa musica grande. Bisogna sempre farsi scattare una ottima dose di entusiasmo, perché senza di quello è molto difficile.

AAJ: Parliamo anche di The Music Next Door. Dal punto di vista compositivo, in un'altra intervista hai dichiarato: «a me piace che dai miei dischi esca la musica, il suono che cercavo mentre componevo». Descrivici il tipo di suono che è uscito da questo lavoro.

R.G.: È un suono di composizioni mie abbastanza intimista, tutto sommato. Mi piace scrivere avendo rispetto per la tradizione e per le grandi melodie, sono un musicista "romantico" e di conseguenza scrivo in maniera diretta verso la melodia. Allo stesso tempo mi piace suonare completamente free, senza forma, un po' come sono stato abituato a fare quando ho iniziato negli anni Settanta con qualche esponente del free jazz. Amo entrambe le strade, mentre non sopporto il buonismo nella musica, eccedere in cose sdolcinate e ruffiane. Ci deve essere sempre un grande rigore e un grande rispetto. In genere scrivo molto piu' di quanto finisco per registrare; sono abbastanza esigente quando scrivo e ho imparato negli anni a farlo sicuramente meglio di un tempo. Quindi quello che esce fuori dai miei dischi, in particolare da The Music Next Door, è un po' un viaggio. Quando uno inizia ad avere 50 anni ha assorbito tanta musica e quindi finisco per riproporre tutto quello che vorrei ascoltare andando a un concerto o ascoltando un disco. È un viaggio attraverso tutto, attraverso la storia del jazz, attraverso la canzone, il pop, il rock progressive, attraverso i cantanti italiani, i compositori di musica da film: c'è tutto questo nella mia sfera musicale, per cui arrivato a un certo punto non devo necessariamente preoccuparmi più di tanto, perché se anche non dovessi avere un'ispirazione saprei dove andare a pescare, come ho fatto in The Music Next Door, dove ci sono cose mie e cose di repertori molto diversi. Questa è una strada che paga sempre e che percorrerò anche nei prossimi dischi.

AAJ: Proviamo dunque a ipotizzare il futuro. Qual è l'idea che vorresti portare a compimento, da qui a dieci anni?

R.G.: Ho diversi progetti. Negli ultimi tre anni ho fatto tanto. Quindi continuerò a lavorate con l'ottetto I-Jazz Ensemble, con il quale realizzeremo un disco, e poi mi piacerebbe secondo capitolo del disco che ho fatto per L'Espresso sul rock progressive, ma con un'etichetta e non in edicola. C'è tanta musica bellissima che ho dovuto lasciare da parte, penso sia il caso di fare un volume 2. Il prog mi sta molto a cuore. Per il momento mi sembra abbastanza, cerco sempre di mettere a frutto qualche idea quando ne vale la pena e quando sono sicuro di ciò che sto facendo.

AAJ: Da qui ai prossimi dieci minuti?

R.G.: Da qui a dieci minuti? (ride, N.d.R.). Non saprei, comunque io lavoro, ascolto musica e scrivo in continuazione. Stavo per uscire a fare dei giri, ma poi alla fine ritorno a casa, sto sempre con il computer acceso a guardare filmati storici, ascoltare musica: sono sempre dentro la musica.


Foto di Claudio Casanova


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