lunedì 10 gennaio 2011

Perdizione cantautorale - intervista a Ettore Giuradei

Perdizione cantautorale - Ettore Giuradei - L'Isola della Musica Italiana


Ettore Giuradei
Perdizione cantautorale


Il cantautore bresciano Ettore Giuradei si è fatto notare in ambito indie con un paio di album – “Panciastorie” del 2005 e “Era che così” del 2008 - che gli hanno fatto guadagnare diversi consensi da parte degli addetti ai lavori e, soprattutto, gli hanno permesso di presentarsi alla fatidica terza prova con molta fiducia nelle proprie qualità. La speranza che traspare dalle sue parole è che “La Repubblica del sole” (Novunque/ Mizar) può rappresentere la svolta decisiva per un cammino ancora più denso di soddifazione.

La biografia sul tuo sito ufficiale inizia con la definizione di “cantautore atipico”. Cosa vuol dire?

Penso che sia proprio il fondo della nostra ricerca, che è poi il tentare di staccarsi dalla classica etichetta di cantautore, spingendo il nostro lavoro verso una musica, tra virgolette, più viscerale, un po’ più rockettara. Soprattutto dal vivo si può capire di più la definizione di “cantautore atipico”, proprio perché c’è una componente fisica molto potente.

È un voler distanziarsi dalla scena cantautorale italiana?

Sì, in riferimento a quello che è da sempre il cantautore per l’italiano medio.

C’è qualcosa che non sopporti dell’ambiente cantautorale?

Una cosa che non sopporto è che ancora non c’è quella totale libertà di accettare che la canzone d’autore può essere portata avanti non come genere, ma come qualità del testo. Ci sono degli artisti che scrivono delle cose molto interessanti e profonde, basterebbe questo per farli rientrare nei cantautori, mentre c’è ancora una parte di esperti di canzone d’autore che sono legati alla figura del cantauore acustico, al cantautore un po’ intellettuale, che è una figura che non abbiamo mai apprezzato fino in fondo.

Da "Era che così" (2008) ad oggi, cosa hai fatto?

Abbiamo fatto un tour praticamente interminabile di quasi 200 date, e nel frattempo da luglio 2009 abbiamo iniziato a lavorare al nuovo album “La Repubblica del sole”. Il percorso che ci ha portato all’album è stato molto lungo. Abbiamo fatto dei provini a luglio, altri a novembre a casa nostra, dove abbiamo allestito uno studio, e poi ci ha affiancato il produttore Paolo Iafelice, con il quale abbiamo fatto insieme una parte del lavoro nel suo studio Adesiva Discografica. Infine dopo il master di fine settembre abbiamo ottenuto la realizzazione del disco.

Parli sempre al plurale, questo fa intendere che il vostro è un lavoro di gruppo.

Sì, soprattutto con mio fratello Marco, che dal primo album è il mio collaboratore di fiducia, insostituibile, e dopo c’è una situazione più allargata, di gruppo, che comprende il nostro fonico Domenico Vigliotti, che ha seguito i processi realizzativi del disco.

I nuovi pezzi sono nati durante il tour?

Non tutti, un brano doveva finire su “Era che così”, però non avevamo ancora trovato l’arrangiamento adatto, altri due sono di un periodo precendente, mentre gli altri sì, sono nati durante questi due anni.

Cosa li rende comuni?

La decisione di chiamare il disco “La Repubblica del sole”, oltre per la canzone omonima, è perché i brani toccano dei temi che riguardano in modo molto attuale la situazione italiana vissuta personalmente da ognuno di noi, da ogni uomo. Quindi sono sensazioni che spero che molte persone abbiano vissuto in questi anni, era un modo di dire che “La Repubblica del sole” è composta da persone che provano questo tipo di sensazioni e queste emozioni.

È un album di speranza futura o è solo il punto della situazione?

È più una speranza, effettivamente il disco parte con la title track che è il brano più speranzoso e positivo e si chiude con un brano che ci riporta alla realtà dei fatti che sicuramente non sono come quelli descritti ne “La Repubblica del sole”. È una speranza con la coscienza che bisogna distruggere tutto quello che esiste.

Rispetto al passato s’avverte netta una maggiore ricercatezza melodica.

Come al solito le canzoni finisco sul disco, tra virgolette, come nascono. Forse abbiamo lavorato un po’ di più sulle strutture, quindi sugli equilibri, e la scelta di avere Paolo Iafelice come co-produttore era una scelta che ci portava ad avere un prodotto più curato, soprattutto per quanto riguarda la voce e dopo sì, ci sono tre o quattro canzoni che a mio avviso hanno un ritornello molto melodico.

Molto orecchiabile è anche il brano “Piedi alati”. C’è voglia di maggiore visibilità, di fare presa più velocemente sul pubblico?

È stato proprio un caso che all’interno delle canzoni mi sono ritrovato questi ritornelli, che effettivamente erano molto forti, quindi abbiamo cercato di dargli maggiore importaza, sapendo che potevano essere un’arma in più per arrivare a più persone.

Stile che vira anche verso sonorità pop, come in “Eva”.

Sì, per assurdo il ritornello è anche molto “vascoso”, se mi passi il termine. Però anche “4 Matrimoni”, che richiama nel ritornello le aperture alla Vasco. Non abbiamo mai voluto abbandonare la parte rockettara, che abbinata a un ritornello che funziona, fa in modo che il pezzo riesca ad arrivare a tanta gente.

Stilisticamente sei un artista dal doppio aspetto. Ti senti più da serata a lume di candela o animale da palco?

L’intenzione è quella di creare uno spettacolo live con i pezzi dei tre album e dare la possibilità al pubblico di passare tranquillamente da un genere all’altro. Questa cosa nasce dalla nostra volontà di non fissarci su un genere. In riferimento alla domanda spero di creare durante un concerto sia l’atmosfera intima e sia di creare il momento, per assurdo, punk.

Quando componi, pensi a come il pezzo funzionerà sul palco?

Prima si conclude il pezzo, che è la cosa più importante, e poi si pensa a come strutturare una scaletta che ha come intenzione quella di soprendere il più possibile chi ti ascolta. Siamo convinti che la sorpresa serva a interessare e coinvolgere la gente.

Nella scrittura emergono elementi legati a una certa tradizione popolare.

Siamo molto paesani, siamo molto inseriti nel nostro territorio e siamo molto influenzati dalla vita del paese, la viviamo noi per primi. Scendo spesso in paese, incontro gente e questa esperienza in qualche modo rientra nelle canzoni.

La tua non è proprio una voce radiofonica e la vostra proposta musicale non è tra le più consuete. La ritieni difficile da assimilare?

A mio avviso no. Spero con questo disco di esser riuscito a trovare quell’alchimia giusta per far uscire una melodia abbastanza commerciale abbinata a dei testi un po’ più profondi dei classici testi pop che ci arrivano in questo momento.

Qual è la tua attuale speranza?

Spero che la promozione vada molto bene per questo disco perché ci crediamo veramenete tanto. Se non dovesse andar bene la vedo veramente grigia. Speriamo di arrivare a più gente possibile.

Altrimenti?

Non lo so sinceramente. Però siamo convinti che con questo disco e con il live, che è la cosa che ci tiene a galla a livello di speranze ed emozioni, tanti si ricorderanno di noi perché lo stiamo curando veramente bene.

Uscendo da un vostro concerto cosa vorresti sentir dire alla gente?

Cazzo, bravissimi!

martedì 4 gennaio 2011

Last Project: Feeling Good in Your Shoes


I The Last Project sono una band di stanza a Pavia che, trascorse alcune esperienze in ambito indie con il nome di GateZero e dopo aver trovato in Francesco Quaranta la voce giusta per il nuovo progetto, ha dato alle stampe il proprio ep di debutto Feeling Good in Your Shoes.

Si tratta di quattro brani cantati in inglese che riescono a tradurre un pop fresco e spensierato capace di rimandare alle atomosfere colorate del british sound degli anni ’60, impreziosite e personalizzate dal taglio essenziale degli arrangiamenti. Scorrono piacevolmente e senza grinze le varie Don’t Run Away, Goodbye e Waiting for Someone, grazie soprattutto alla voce del nuovo frontman che imprime una timbrica melodicamente assonante e levigata, mentre paga pegno A Perfect Mask, eccessivamente piegata alle soluzioni ritmico/melodiche che hanno fatto la fortuna di gruppi come i Franz Ferdinand, ma che allo stato attuale risultano decisamente fuori tempo massimo.