mercoledì 10 marzo 2010

Interviste kroniche: Joy Cut # Overmood # Quinto Stato # Hollowblue # The Banshee

Interviste kroniche 2007/2008

Li abbiamo visti esibirsi a Roma prima del concerto degli Editors, sono riusciti a catturare l’attenzione dei presenti con un mini-set profondo, scuro, sofferto. I Joy Cut rafforzano con il nuovo “The Very Strange Tale of Mr. Man” tutto il loro potenziale musicale e comunicativo. Portano avanti un’idea concreta, una filosofia d’intendere gli sviluppi di costume che si riflette nei loro testi, nel loro suono. Ci svelano cosa c’è nel profondo del loro pensiero e da dove nasce l’incredibile necessità comunicativa che li spinge a portare avanti un’idea che ha solo bisogno di spazio e possibilità d’esprimersi nella sua interezza


Il progetto JoyCut prende il nome da due opere ben distinte: “Joey” di Nick Drake e “The Final Cut” dei Pink Floyd targati Roger Waters. E’ solo un fattore d’assonanze o ci sono degli aspetti artistici e caratteriali di questi due personaggi che si possono rintracciare nella musica della band?
Piccola precisazione per onestà intellettuale e credito storico: “Joey” è una traccia di “A Time for No Reply” di Drake. Detto questo, l’assonanza metrica ha senz’altro contribuito alla sintesi fra i due significati, ovviamente la caratura comunicativa dei due pianeti in questione ha fatto il resto. Ci sono stati, ci sono attualmente e probabilmente continueranno ad esserci tratti sonori specifici che si riferiscono ai due artisti.

Il fatto di cantare in inglese per esprimere la vostra filosofia musicale è una scelta puramente commerciale o pensate che sia una via di comunicazione effettivamente più efficace?
Diremo una cosa semplice. Noi cantiamo in inglese e basta. La scelta è spontanea e allo stesso tempo necessaria. Abbiamo col passare del tempo sperimentato e constatato quanto il suono della voce meglio si esprima con la formula codicologica. Si abbandona più aderentemente al resto. E il linguaggio è mutuato da frames di immagini-idee che facilmente possono essere rappresentate da chi ascolta. L’inglese non è pertanto una scelta commerciale. Meglio dire una consapevole presa di posizione, con l’ambizione di potersi confrontare con qualsiasi cultura.

Il vostro ultimo lavoro “The Very Strange Tale of Mr. Man” è un disco molto ben curato e corposo. Sembra il frutto di molte session di registrazione; è questo il vostro modo di mettere insieme le idee o arrivate alle conclusioni in maniera rapida senza perder troppo tempo in studio?
È frutto di molte session di prove. Di Suono maturato live e di un’attività compositiva che da molto tempo sente il bisogno di venire alla luce. In studio abbiamo registrato in presa diretta. Esperienza che ci ha gratificato tanto e che speriamo di poter ripetere nei prossimi lavori, pur non disdegnando il valore aggiunto della ripresa stratificata. Un domani, se avremo possibilità e disponibilità, volentieri avremmo voglia di vivere lo studio buttando via l’orologio.

Difficile cogliere in maniera netta le ispirazioni della vostra musica. Ma nel brano “Shake Your Shape” viene fuori un’urgenza espressiva che riporta alla mente le sonorità darkeggianti della prima metà degli anni ’80. E’ un abbaglio o effettivamente portate nel cuore quel periodo?
Quello è senza alcun dubbio uno dei colori centrali della nostra esperienza adolescenziale nonché dell’imprinting formativo. Ma ci sono tanti altri colori che possono essere accuratamente scorti, scovati e scoperti all’interno del disco. Una volta trovati e riconosciuti non si potrà far a meno di considerarli alla stessa stregua di quelli che emergono ai primi ascolti. “Shake Your Shape” è la miglior sintesi, in tal senso, che siamo riusciti ad offrire.

Chi è esattamente Mr. Man? Perché questa necessità vitale di doverlo salvare? E soprattutto, in che modo si può raggiungere l’obiettivo?
Mr.Man incarna i valori della sensibilità umana perduta. Non ci guardiamo più negli occhi. Non ci ascoltiamo più veramente. Puntiamo sempre più ad apparire. Tesi al profitto. Tradendo lo sviluppo civile e sociale col velenoso termine di Progresso. Mr.Man è questo Processo. L’uomo, quello che non c’è più, è oramai alieno, diverso, altro. E quando ne incontriamo uno fragile, umile, che lotta per essere semplicemente umano, ne abbiamo Paura.

Portate Mr. Man con voi anche sul palco sotto forma di un pupazzetto verde dalle fattezze extraterrestri. Sembra proprio parte integrante della band. Vi ispira, vi dà forza o è solo un fattore scenografico?
È il Nous! È l’anima dei Joy Cut. Ha un profondo taglio sulla pancia. All’interno vi riponiamo tutti i nostri oggetti da custodire. Ce li redistribuiamo prima di ogni concerto. Ci fa sentire parti dello stesso corpo. Ci dà gioia. Il nostro progetto vorrebbe un giorno istituire una fondazione Mr.Man. Per dare “voce” al vuoto sociale.

Quanto è stato importante suonare come supporter degli Editors nelle due date italiane del loro tour? Cosa vi ha concretamente portato in termini d’esperienza e divulgazione della vostra musica?
Tantissimo. Primo perché con gli Editors vi erano anche i The Boxer Rebellion, band della scena londinese e questo ci ha permesso di confrontarci direttamente con i suoni e la forma mentis d’oltremanica, secondo perché tenere il passo a realtà così straripanti ci convince sempre più di quanto lavorare, aprirsi, cambiare, crescere, ammettere limiti, sia per una band l’obiettivo più importante verso cui indirizzare tutti gli sforzi. Ci ha inoltre permesso di suonare letteralmente davanti a migliaia di persone con un’aspettativa di linguaggio talmente ben definita da cogliere con favore anche la nostra proposta.

Un’idea musicale non così immediata. Avere a disposizione uno spazio tutto per voi (magari davanti ad un pubblico più ristretto) è l’ideale per esprimervi al meglio o credete che la gente riesca a cogliere al volo la vostra essenza anche nel giro di due brani?
Stiamo crescendo trovandoci a dover offrire una sintesi della nostra identità musicale in uno “short term” (aperture, festival): fino a questo punto questa modalità ha pagato, permettendoci di veicolare l’energia in pochi pezzi. Lo spazio tutto per noi? Dopo numerose occasioni nel passato e alcune date quest’estate con palchi tutti nostri, è l’esperienza che ci apprestiamo a vivere di nuovo a partire dal 1 dicembre, data in cui partirà il nostro giro invernale. Augurandoci di incontrarci presto risponderemo sulla scorta dell’esperienza di fatto. Vero è che suonare davanti a poche persone che però sai indubitabilmente essere lì per te, che magari hanno acquistato o ascoltato il tuo disco…fa piacere e sarà emozionante! Mr. Man sarà contentissimo!

Avete in mente di portare avanti il vostro progetto basandovi nuovamente sulle tematiche di quest’album o nel prossimo futuro dobbiamo aspettarci delle radicali trasformazioni dei JoyCut?
Perché no? Ci sentiamo molto rappresentati dalla metafora della Polaroid. Fotografare sempre con autenticità il nostro stato di forma. Composizioni e brani per prossimi lavori già in archivio, moltissimo in cantiere. Altro che come sempre verrà fuori d’impatto. Unica cosa certa: racconteremo chi siamo!


E’ una di quelle band che non passano inosservate. Uso intelligente dell’elettronica, bella miscela di suoni e modernità consapevole, dall’incedere rapido, fulmineo, ritmato. Gli Overmood si scusano per gli imprevisti che ne hanno ritardato l’ascesa e mettono sul piatto le carte giuste per essere considerati una delle realtà più ficcanti e interessanti dell’anno.
“Sorry for the Setbacks” è la giusta sintesi di un lavoro di sperimentazione mirata, senza fronzoli, che raggiunge l’obiettivo senza titubanze e che può seriamente rappresentare il trampolino verso la giusta consacrazione.

Il vostro sound è molto originale e difficilmente riconducibile a sonorità ben definite. Come riuscite a mettere insieme la fondamentale componente elettronica con la vostra parte più rockeggiante rimanendo in equilibrio stilistico?
Fare confluire il pop-rock nell`elettronica è stato istintivo così come lo è stato usare un computer, campionamenti e auto-campionamenti per suonare. È un`attitudine che deriva da alcuni anni passati nell`hip-hop e più tardi nell’ascolto di musica elettronica. Solo da questo punto in poi è nato l’interesse e la curiosità per il rock indipendente americano e, di conseguenza, la voglia di provare a costruire qualcosa di simile ma con synth, sample e batteria elettronica. Ovvero con gli stessi strumenti di sempre. Contrariamente alla tendenza generale dei gruppi rock che si contaminano d’elettronica per sperimentare, il nostro percorso è stato inverso, diciamo dal breakbeat ai Pixies!

Quanto è stato difficile innestare altri due componenti (basso e chitarra) su un duo propriamente elettronico già collaudato e affiatato?
Non è stato facile far convergere gli interessi in un progetto comune, per questo fino a poco tempo fa ci consideravamo un duo e non una band al completo. Almeno fino all`inserimento di Andrea e Riccardo che, per fortuna, non condividono con noi il 100% degli ascolti. Io e Matteo ci conosciamo da moltissimo tempo ed abbiamo finito per livellare i nostri gusti, anche se spesso abbiamo dovuto discutere molto sui singoli suoni del disco prima di prendere una decisione definitiva.

“Sorry for the Setbacks” è passato attraverso molte fasi compositive oppure avevate tutto in mente ed è bastato entrare in studio e registrarlo?
Il disco è nato da lunghe serate invernali passate nella nostra saletta sotterranea con pc, stereo e chitarra a smontare e rimontare pattern con frammenti di batterie, synth, chitarre, a definire effetti, a strutturare i brani e a registrare demo. Siamo arrivati in studio con i provini dei brani e le parti già completamente definite. Nonostante ciò il risultato finale ha risentito molto e positivamente del lavoro in studio, ci siamo concentrati molto sulla produzione.

C’è qualche cosa che avreste voluto aggiungere o togliere, oppure pensate pienamente che sia un cavallo vincente?
Con il passare del tempo è abbastanza naturale rendersi conto delle molte altre possibilità che avremmo potuto sfruttare... ma questo non significa avere rimpianti di alcun genere, il lavoro ci soddisfa ancora e non poteva che uscire così in quel periodo! Nessun pezzo tra quelli previsti è stato escluso. Dal vivo ci sentiamo liberi di reinterpretare i pezzi e di risuonarli in modo diverso, lasciando spazio all`improvvisazione strumentale.

Rico degli Uochi Tochi dietro al mixer e all’intero progetto Overmood. Quanto e in che modo vi è stato d’aiuto per la realizzazione dell’album e l’assemblaggio dei brani?
Rico c’è stato di grande aiuto: ha subito capito quello che volevamo fare e quale importanza doveva avere la parte ritmica. È stato un lavoro di potenziamento e di definizione di un suono pulito, secco e potente. Per quanto riguarda l’assemblaggio dei brani, come dicevo poco fa il disco era già in buona parte abbozzato nei provini.

Emerge durante l’ascolto di ogni track una certa urgenza espressiva. I pezzi entrano subito nel vivo senza grandi introduzioni. E’ il vostro solito modo di esprimervi o questo fattore è dovuto dall’eccitazione del momento?
Anche questa è una domanda che fa riflettere sul passato... probabilmente si tratta di un retaggio che ci portiamo dietro dall’hip-hop: brevissimo intro, strofa, ritornello, strofa! Senza troppo respiro tra un momento e l’altro.

Colpisce il vostro modo di sviluppare la traccia. Musica che non è mai ferma su binari delineati, ci sono sterzate improvvise e accelerazioni repentine. Chi è di voi l’artefice di questo linguaggio asimmetrico che dà una bella sensazione di moto continuo?
Le basi del disco sono mie e di Matteo. L’asimmetria è una tentazione alla quale abbiamo voluto cedere qualche volta sia nell’andamento delle basi sia nella struttura dei testi, come in “The Mockery”. La tendenza è quella di costruire due atmosfere diverse e complementari che si alternano tra strofa e ritornello facendo molta attenzione ai cambi di tempo. Ora che ci penso è una caratteristica che riscontro spesso nei dischi che ascoltiamo di più.

Si deduce una gran gavetta d’ascoltatori e ricettori musicali. Chi è l’artista che più d’ogni altro v’ispira?
Ti posso fare alcuni nomi random di band che ascoltiamo molto, anche se non sono sempre ricoducibili agli Overmood: Pixies, Modest Mouse, Built to Spill, quasi tutto dei fratelli Kinsella, Daft Punk, Mr. Oizo, Ratatat, Cornelius, Gangstarr, qualcosa della Ed Banger...

Avete in mente di portare degli accorgimenti al vostro suono, magari con una sezione ritmica più pesante, o pensate di continuare sfruttando le possibilità di un`elettronica più "leggera"?
Ora non saprei rispondere, stiamo raccogliendo idee e riscontri nell`attesa di nuove registrazioni. Nel disco abbiamo preso spunti diversi da produzioni diverse cercando di evitare il crossover posticcio, come accade spesso quando si avvicinano rock ed elettronica. “Sorry for the Setbacks” suona come una rilettura giocattolosa dei nostri ascolti.

Che vi piacerebbe fare da grandi? Avete già in mente quale sarà la direzione da prendere per arrivare ad un secondo disco che sicuramente susciterà attese e curiosità?
L`età media è di 22 anni: qualcuno di noi ha già un lavoro quindi è già grande. Per ora vorremmo suonare moltissimo dal vivo. Abbiamo scoperto nuove possibilità interessanti riarrangiando quello che c`è nel disco, cercheremo di concentrarle in un ep nel 2008 che “sicuramente susciterà attese e curiosità” (grazie per la fiducia!).


Scambio d’idee con il gruppo ferrarese per cercare di capire il nocciolo del loro pensiero e il punto di vista di una band giovane e propositiva.

Che significato ha per voi Quinto Stato, cosa rappresenta oltre la semplice idea di rock band?
Quinto Stato è il frutto di una lontana amicizia fra quattro ragazzi della provincia ferrarese. Ci siamo conosciuti sui banchi di scuola, bla bla bla...

Dal vostro esordio discografico ad oggi sono passati quattro anni durante i quali ci sono state molte evoluzioni; c’è un filo conduttore che vi ha portato alla realizzazione di “Le ultime tracce di Mr. Tango”?
Probabilmente la necessità stessa di doverci evolvere. Abbiamo sempre temuto le stagnazioni.

Avete già raggiunto una buona originalità stilistica; da dove nasce il vostro suono e quali sono stati i passaggi fondamentali per la sua amalgama?
Magari è scontato, ma il nostro suono nasce dal confronto-scontro fra i nostri differenti background musicali e grazie a lunghe sessioni di prove abbiamo raggiunto quello che si può sentire nel nostro ultimo cd.

Dall’interpretazione dei testi emerge un forte senso di disagio nei confronti delle consuetudini (religiose, culturali e di costume); è arrivato il momento di scuotere queste situazioni ristagnanti o è meglio fuggire per trovare nuove strade?
Non ci sentiamo di dare un consiglio a riguardo, anche se da come ci poni la domanda, l`invito è quello di dare un messaggio positivo comunque. E tale sia.

Chi è Mr.Tango? Che cosa rappresenta nella vostra ideologia musicale?
Mr.Tango è la ciliegina ammuffita sulla torta di feste mondane, è la spina nel fianco di chi vuol assolutamente apparire brillante. Mr.Tango è una contraddizione continua nella ricerca di una propria soggettività.

Dove si arriva percorrendo le sue tracce?
Sempre nella solita ed anonima provincia ferrarese.

Nel disco ci sono brani notevoli, vedi “Ancora nuvole” o “Cani surgelati nello spazio”; l’idea brillante è proposta in maniera diretta o passa attraverso un percorso realizzativo complesso?
Dipende dal pezzo. Ancora nuvole ad esempio ha richiesto uno sforzo notevole per la sua riuscita, nonostante possa sembrare una canzone abbastanza semplice. Cani surgelati nello spazio, al contrario, è stato un flusso torrenziale che si è materializzato in breve ed è uno dei pezzi a cui siamo più legati.

Quanto ha influito la figura di Giorgio Canali sulla vostra scelta musicale? In che modo un produttore del suo spessore può essere d’aiuto per un gruppo emergente?
Abbiamo la fortuna di conoscere Giorgio e spesso ci incrociamo scambiandoci opinioni. Per la realizzazione del disco però avevamo le idee chiare, anche se il suo tocco è stato fondamentale, come lo sarebbe per qualsiasi gruppo che avesse la possibilità di lavorare con lui.

Prossimamente verso quale direzione si muoveranno i Quinto Stato? C’è un grande obiettivo finale o preferite vivere alla giornata?
La seconda che hai detto.


Voglia di sperimentare e tracciare linee espressive inedite, capacità di plasmare materia sonora come pochi e buon gusto per la sfumatura emozionale: sono questi i maggiori indizi che portano dritti all’idea che gli Hollowblue sono una band dal notevole spessore artistico e dal sicuro impatto stilistico.
Abbiamo scambiato due parole con Gianluca Maria Sorace (voce e anima del gruppo) e Marco Calderisi (chitarra), dopo l’uscita dello splendido “Stars are Crashing (In My Backyard)” e prima del tour che li porterà fino a esibirsi a Londra, in quella che ha tutta l’aria di essere la strada giusta verso la consacrazione.


Nel vostro ultimo lavoro, “Stars are Crashing (In My Backyard)”, emergono diversi momenti dall’andamento filmico. Il riferimento è alla pulpfictioniana “First Avenue” e agli scenari struggenti di “We Fall”. Quanto siete attratti dal mondo cinematografico?
Gianluca: Il linguaggio cinematografico è qualcosa che ha sempre avuto una forte influenza su di me. Che poi questa ricada direttamente nella musica che facciamo, non saprei. Probabilmente a livello inconscio, in alcuni casi, sì. Ma mi sento di dire che nessuno di noi parta veramente dall`idea di ottenere un certo risultato nella fase iniziale in cui ci apprestiamo a comporre e arrangiare. Lasciamo che le cose prendano il loro corso in modo molto istintivo, e così proseguiamo stando attenti a quello che la canzone stessa ci richiede. Può capitare di arrivare a comporre qualcosa di maggiormente cinematografico, ma anche semplici e dirette canzoni pop.

Se vi proponessero una soundtrack, da quale regista vi piacerebbe essere chiamati e perché?
Gianluca: Sto scoprendo recentemente David Lynch. Non avevo visto a suo tempo “Twin Peaks”. Mi sono perso le reazioni che suscitò. Immagino che debba essere stato, per le famiglie che lo seguirono in televisione, abbastanza spiazzante. Di Lynch adoro il modo sottile in cui mescola la realtà con il sogno. Non mi dispiacerebbe musicare un western. Ecco, magari un western di Lynch, se mai ne farà uno.

Ci sono altre band che godono della vostra particolare ammirazione, in Italia e all’estero, e perché?
Marco: In italia ci sono stati diversi gruppi che hanno goduto e/o godono della nostra ammirazione: Massimo Volume e Scisma per quanto riguarda (purtroppo) il passato; Ex-Otago, Perturbazione, Offlaga Disco Pax sono alcuni dei gruppi che più mi attirano e coinvolgono al momento. Tre nomi su tutti per quanto riguarda le influenze estere: i Cure, per la loro tristezza; i Blur, per la loro essenza pop; i Sonic Youth, per l`uso dei suoni.

Gianluca: Le mie influenze principali sono: David Bowie, Calexico, Nick Cave, Chet Baker, Television Personalities, Blonde Redhead, Portishead, Pulp, Sonic Youth, Arvo Part e i Divine Comedy di “Regeneration”, non necessariamente in quest`ordine. Se parliamo invece della scena italiana mi piacciono molto alcune band della nostra stessa etichetta (la Midfinger records, ndr): The Gumo, Drink to Me e Lara Martelli. E poi Luca Faggella col quale ci siamo trovati talvolta a condividere lo stesso palco, ma anche Valentina Dorme e Virginiana Miller. Voglio citare anche lo splendido progetto solista del nostro batterista Federico Moi, i Lovers of `69. Poi adoro molta della musica italiana degli anni ‘60/’70. Insomma un panorama abbastanza vasto, e ognuno dei componenti degli Hollowblue potrebbe dirti molti altri nomi. Quello che io cerco, e che accomuna quasi tutti questi nomi, è la capacita di trasmettere emozioni e portarmi alle lacrime. Ecco personalmente cerco la commozione. Che sia ben chiaro però che commozione non corrisponde assolutamente a tristezza.

La scelta di utilizzare il pianoforte, ma soprattutto il violino, deriva da una precisa voglia di mettere in gioco sonorità solitamente appartenenti ad altre derive musicali, o pensate sempre più al concetto di band allargata, magari con un’intera sezione d’archi, sax, tromba e altro?
Marco: Alla base di tutto c`è sempre una voglia di sperimentare e mischiare suoni e influenze. Questo sia dal punto di vista strumentale, che dal punto di vista di ascolti. I nostri gusti sono piuttosto eterogenei. Sarebbe molto bello poter suonare con un’intera sezione d`archi. Altrettanto poter includere stabilmente nell`organico anche un trombettista. Anche il sax è uno strumento che mi è sempre piaciuto. Però, mentre non mi è difficile immaginare una tromba o degli archi nella nostra musica, faccio più fatica a figurarmi un sassofono.

Gianluca: Adoro gli archi, in particolare il violoncello e adoro pianoforte e tromba. Non so, mi viene naturale aggiungere arrangiamenti che prevedono l`utilizzo di questi strumenti. Forse anche troppo naturale, nel senso che il rischio può essere in alcuni casi di sovraccaricare tutto quanto. Mi sembra però che finora siamo riusciti a mantenere il giusto equilibrio tra forza elettrica e acustica. Quando è possibile Andrea Inghischiano, il trombettista che ha suonato nel disco (benchè non faccia parte in modo stabile del gruppo), si unisce a noi nei live. Sarebbe bello aver sempre la possibilità si muoverci con più strumentisti. Altrettanto bello però è suonare le canzoni anche in modo semplice. Il fatto che le melodie siano abbastanza forti permette in realtà di presentare le canzoni con arrangiamenti anche semplici e diretti.

Un suono che nella sua interezza denuncia personalità, coesione ed espressività. Quanto lavoro in studio c’è per arrivare a una tale consistenza? Da dove nascono le vostre canzoni? E dove vogliono arrivare?
Marco: Hollowblue è nato come progetto solista di Gianluca e in genere la maggior parte dei pezzi nasce da lui. Con il passare del tempo c’è stata un’evoluzione costante del nostro approccio ed è risultato sempre più significativo l`apporto di tutti. Ciò sicuramente permette di creare un amalgama sonoro composito e originale. La cosa particolare è che, comunque, il processo compositivo non è celebrale o volutamente complesso. Noi suoniamo quello che ci piace e che ci viene spontaneo suonare. Però, senza dubbio, il lavoro costante e continuo portato avanti in sala prove in questi ultimi quattro anni, ha fatto sì che si sviluppasse spontaneamente un’unità e una direzione sonora di gruppo.

Gianluca: Sì, come dice Marco, le cose piano piano sono cambiate negli equilibri della band. Se inizialmente mi occupavo un po` di tutto io, adesso - benché continui a scrivere testi e melodie -, cerchiamo di far nascere le canzoni direttamente in studio. È molto più divertente e più aderente a quello che siamo. Inoltre abbiamo raggiunto un tale grado d’affiatamento che in alcuni giorni potremmo scrivere due o tre canzoni alla volta. Una grande fortuna devo dire. Nelle mie passate esperienze in altri gruppi il raggiungimento di un obiettivo in termini musicali e artistici richiedeva spesso un grande sforzo. Adesso basta accendere l`amplificatore e partire con qualche nota che tutti ci ritroviamo sulla stessa lunghezza d`onda. Quello che vogliamo è semplicemente che trasmettano emozioni forti e che emozionino noi prima di tutto. Immagino che sia un obiettivo abbastanza comune.

L’album si distingue per la cura dei particolari e delle sfumature timbriche. Impegno che si riflette anche nella bella confezione: copertina ricercata e foto azzeccate. In che modo una band che dà risalto a questi aspetti si pone di fronte all’avanzare inesorabile del digital download, ovvero della musica che non si può stringere tra le mani?
Marco: Credo che, al giorno d`oggi, il download digitale sia una realtà importante e innegabile, che vada quindi vissuta in modo attivo. Vedo il download digitale (legale o meno) come uno strumento in più per arrivare dove non è possibile arrivare con altre forme di comunicazione/diffusione. Sicuramente la proposta dd attuale è più limitata, sotto certi aspetti, rispetto a quella classica (ovvero cd o, addirittura, vinile), ma non credo che ciò costituisca un problema di fondo. I problemi sono altri.

Gianluca: Da un certo punto di vista il download digitale è davvero una grande fortuna per le band e la diffusione della musica in genere. A noi internet ha aiutato moltissimo, permettendoci di avere una certa visibilità anche oltre confine. Devo comunque dire che sono un feticista del vinile e del supporto in genere. Non riesco a immaginare un album che sia solo immateriale, non abbia odore e non invecchi col passare del tempo. Questa è una cosa a cui non riuscirei a rinunciare. Secondo me la comodità dell`accesso alla musica attraverso i canali digitali dovrebbe avere come contropartita una cura maggiore per i supporti attraverso il packaging, come fanno in Giappone dove il supporto è prezioso quasi al pari della musica stessa.

Pensate sia una vera rivoluzione o una resa inevitabile?
Marco: Una rivoluzione. Il problema casomai, non è l`eventuale diffusione, legale o meno, di contenuti digitali, ma il fatto che oggi c’è un pubblico meno interessato a certe forme di arte/spettacolo. Si va sempre più verso un sistema “mordi e fuggi”. Ovviamente questa tendenza è agevolata dal dd, ma, contemporaneamente, il dato veramente critico è quello legato alla variazione di sensibilità e interessi dell`utente finale.

Gianluca: Sì, una rivoluzione. Ma la cosa un po` triste per me è che davvero la musica viene sempre più fruita come canzone singola e non come album, lista di canzoni, progetto musicale.
La compilation come modello assoluto d’ascolto. Oh mamma quanto sono vecchio, non riesco ad accettarlo.

A maggio sarete a Londra per il tour promozionale. Vi sentite sufficientemente maturi per proporvi a un pubblico solitamente esigente come quello inglese? Cosa vi aspettate da questa esperienza e quanto pensate che la vostra musica ne possa beneficiare?
Marco: È sempre stato il mio sogno quello di calcare un palco in Inghilterra. Sono cresciuto ascoltando principalmente musica inglese, sono sonorità alle quali sono legatissimo. Sì, credo che siamo sufficientemente maturi... ma del resto lo sapremo solo quando ormai non sarà più possibile tornare indietro, cioè non appena saliremo sul palco!

Gianluca: Suonare e suonare e suonare. Questo non può che far bene a noi e alle canzoni stesse che così acquistano diverse sfumature rispetto all`album, maggior vita. Questo indipendentemente che si faccia in Italia o all`estero. Certo che confrontarci con un pubblico inglese per noi che facciamo una musica d’ispirazione per lo più anglofona è una bella sfida. Sulla carta è stata una sfida già vinta in passato visto che sono uscite recensioni lusinghiere sia negli Stati Uniti che in Inghilterra, e così sta avvenendo pian piano anche per questo album.
Come credo sia noto dal punto di vista artistico ci piace molto confrontarci con quanto succede fuori dall`Italia. Vedi la collaborazione con Anthony Reynolds sul primo disco o quella con Dan Fante adesso. Il faccia a faccia con il pubblico dei live sarà comunque un`altra cosa e non vedo l`ora che si realizzi. A fine aprile faremo anche un tour tutto italiano di sette/otto date insieme a Dan Fante. Vi aspettiamo a questi appuntamenti di musica e poesia.

I The Banshee, musicalmente, fanno sul serio. Due dischi all’attivo, ottime recensioni da parte della critica (NME, Mucchio, Kronic.it) e un buon riscontro di pubblico (sia in Italia che all’estero) ne fanno una delle più interessanti realtà del panorama indie emergente.
Pop molto ben concepito, fresco, intelligente, che si rifà ai grandi nomi della new-wave d’annata, ma che non può passare inosservato proprio perché riesce a non cadere in quei facili cliché che ne farebbero uno dei tanti cloni dei Franz Ferdinand.

Qual è la ragione per la quale esistono i The Banshee? Da dove nasce questo nome?
Siamo quattro orfanelli. I nostri genitori adottivi decisero di chiamarci The Banshee, perché nelle culle strillavamo come la leggendaria creatura dei miti irlandesi.

Venite da più parti descritti come una scommessa vincente. Qual è l’elemento principale di questa riuscita?
Come nel gioco d’azzardo, ci vuole fortuna e un po’ d’incoscienza, poi un bicchiere di Jack Daniels e sigari cubani.

I vostri pezzi sprigionano energia e non conoscono pause di riflessione. Come nascono e qual è la caratteristica che li lega e li rende adatti al vostro stile?
Diciamo che la gravidanza (il concepimento dell’idea) è solitamente mia o di Jago. Poi, di solito, suoniamo avvolti dal nastro isolante, per legare meglio le nostre composizioni! Per quel che concerne lo stile è solo questione di sex appeal.

Con il nuovo “Your Nice Habits” in che modo il vostro suono si è evoluto e cosa è cambiato rispetto ai primi passi mossi con “Public Talks” del 2006?
Oggi il suono è decisamente più definito. Si parla di vera e propria evoluzione e rivoluzione. Rispetto ai primi passi inoltre sono cambiate molte cose. Pensa che ora viviamo in California, vicino a uno che mi pare si chiami Puff Daddy o qualcosa di simile. Giriamo in macchine con ogni comfort (anche inimmaginabile) e ovunque andiamo, ci riempiono la bocca di M&M’s dello stesso colore…

Un disco in soli 36 minuti. È una precisa scelta espressiva?
No, un caso. È un disco che dura solo 36 minuti perché lo abbiamo registrato in solo 36 minuti!

Quali sono i vostri nice habits?
La Play, Mc Donald’s, vedere “Uomini e Donne” in TV. Praticamente gli stessi tuoi nice habits, non è così? [ride]

Sì, in parte. Quanto, e in che modo, è stato decisivo il supporto in studio del producer Luke Smith?
Luke è stato basilare. È un gran producer e ha mantenuto una calma perfetta (evidente in situazioni anche difficili) per l’intera registrazione dell’album. La cosa mi ha impressionato, e lo staff del Red House Recordings di Senigallia è stato magico. Luke lo aveva proposto perchè conosceva già David Lenci, che è un fonico veramente in gamba.
Questa volta sono serio: devo confessare che ancora adesso non comprendo perfettamente le sfumature di suono che Luke è riuscito ad inserire in “Your Nice Habits”. Il suo livello artistico è davvero superiore al mio!

Vi dà fastidio leggere nelle recensioni i nomi dei gruppi ai quali solitamente siete accostati, come Devo o Talking Heads?
Per niente. Anzi, spero che non dia fastidio a loro!

Quanto è importante, per una band emergente, avere alle spalle un’etichetta discografica in un momento in cui sembra che il futuro sia decisamente versato al download e al fai da te?
La prima cosa importante è la promozione del disco. Poi il supporto è successivo. Ritengo che avere gente che crede in te sia fondamentale, soprattutto all’inizio. Per cui, lunga vita alle etichette discografiche (indiependenti)!

La vostra musica gode di un notevole respiro internazionale: testi in inglese, scelta dei suoni e un atteggiamento generale lontano dagli stereotipi pop italiani. Pensate che questo possa creare una certa diffidenza con il pubblico o avete in mente di puntare subito a un audience prettamente europea?
È eccitante pensare che la gente ballerà con i nostri dischi. Stiamo puntando ad un audience europea, africana, asiatica, americana e anche oceanica! Gli stereotipi, ahimè, esistono ovunque. In Italia non abbiamo mai avvertito particolare diffidenza da parte del pubblico, come del resto negli altri paesi in cui abbiamo suonato.

Dopo due buoni album, iniziate a sentire il peso delle aspettative? In che modo si svilupperà il progetto The Banshee?
Dopo due soli album, l’unico peso che sentiamo è quello degli amplificatori, in quanto non abbiamo ancora roadies e sta per iniziare il tour.
Anche per questo, stiamo componendo sempre di più con il computer. Potrebbe un giorno sostituire ogni strumento, ogni cosa, anche noi!

Infine, una considerazione sulla vostra Genova. Cosa le manca per competere con le altre città, come Roma o Milano, dove le band hanno molte opportunità e spazi per potersi esprimere?
Non vorrei sembrare un santone, ma la domanda contiene già la mia risposta. Parli di molte opportunità e spazi per potersi esprimere in altre città come Milano e Roma: ti pare poco?

martedì 9 marzo 2010

Serate kroniche: i live report (Editors/Disco Drive)




In un ambiente freddo e vagamente distratto spetta ai nostri Joy Cut aprire la tappa romana del tour degli Editors e - nonostante l’indifferenza dello sparuto pubblico che sta lentamente riempiendo il Piper Club – il trio riesce ad offrire un mini-set efficace che strappa pochi applausi ma sinceri. Una rapida sistemazione al palco ed ecco esibirsi i londinesi The Boxer Rebellion, band di belle speranze capace di scaldare gli animi e catalizzare l’attenzione dei presenti con una prestazione essenziale, decisa, senza sbavature e dal coinvolgente andamento ritmico.

Quando ormai sul pavimento del leggendario club capitolino non c’è più neanche una mattonella libera arrivano sul palco gli Editors. I ragazzi di Birmingham sanno bene quanto una buona scaletta può incidere sulla riuscita di un concerto ed infilano subito in apertura - senza perdersi in introduzioni di sorta - due schegge taglientissime del loro repertorio: “Lights” e “Bones”. Due brani eseguiti a perdifiato, con tutta l’energia possibile neanche fosse l’ultimo live della loro carriera. Un avvio folgorante che ha un impatto decisivo in grado di far schizzare alle stelle l’entusiasmo di un’audience che ha voglia di saltare, ballare e farsi trascinare.

La band non è di quelle che si fanno pregare, anzi. Tom Smith si produce in una performance convincente, interpreta i testi delle canzoni con smorfie e pose teatrali, tiene il palco con disinvoltura e ruba la scena mettendosi a suonare in piedi sul pianoforte, arrivando in alcuni momenti quasi a toccare i ragazzi delle prime file e dimenandosi divertito dal tanto entusiasmo prodotto. Dal vivo i brani assumono una veste meno profonda e oscura ma leggermente più colorata ed ariosa. La voce di Smith è più squillante, Leetch al basso e soprattutto il drummer Edward Lay sostengono la struttura ritmica con un apporto incessante e preciso, mentre la chitarra di Urbanowicz resta defilata senza trovare grandi spazi.

Questi sono gli Editors, una band che ha molte frecce nel suo arco e che riesce a mantenere alto il livello emozionale soprattutto grazie a brani come “When Anger Shows”; un pezzo dalla timbrica decadente eseguito con rabbia, forza espressiva e passione. Il concerto non conosce soste e il pubblico partecipa entusiasta e divertito: “Blood” fa elevare aggreganti cori da stadio e una decisissima versione di “All Sparks” produce un battimano incessante. I brani dei due album si mescolano facilmente in un cocktail micidiale: “Munich” è accolta da acclamazioni trionfalistiche e le nuove ma già epiche “An End Has a Start” e “Escape the Nest” fanno sì che l’eccitazione rompa gli argini. Si respira un’aria vibrante; ogni track sviluppa esaltazione e il clima è ormai bollente.

Nel finale la bellissima versione di “Smokers Outside the Hospital Doors” mette il punto esclamativo ad un’esibizione maiuscola capace di spezzare quel filo di scetticismo che prima del concerto legava molti pensieri dei presenti, tra i quali quello del vostro diffidente cronista.

Disco Drive @ Circolo degli Artisti, Roma 03.11.2007



C’era attesa e molta curiosità tra gli spettatori che sabato 3 novembre hanno affollato – come di consueto – il Circolo degli Artisti di Roma, locale sempre più al centro delle scorribande elettro-indie della bella penisola.

L’opening act ha visto protagonisti gli Elettronoir, gruppo volenteroso che ha presentato un set incentrato su quelle sonorità chiaroscurali - infarcite di soluzioni elettroniche - con le quali si stanno facendo conoscere anche al di fuori dei confini capitolini. Un live che purtroppo paga pegno ad un’impostazione timbrica sicuramente da rivedere; la voce di Marco Pantosti si perdeva nelle frequenze del basso di Matteo Cavucci, rimanendo soffocata e per lunghi tratti incomprensibile. Bella la presenza scenica della femme fatale Georgia Colloidi che però non è bastata per elevare un suono complessivamente troppo incentrato sull’elettronica di Davide Mastrullo.

Di ben altra pasta l’esibizione dei sempre più affermati Disco Drive. Trio esplosivo, estroverso, eclettico al punto da far letteralmente vibrare l’atmosfera compassata del Circolo. Un concerto a tratti straripante, dall’approccio forsennato e incredibilmente coordinato malgrado le lancinanti sonorità di una band sempre più lontana dagli stilemi degli esordi e sempre più propensa ad un noise d’altissima qualità.

Consapevoli del loro spessore, i ragazzi si permettono sperimentazioni d’ogni genere, si cambiano postazione e strumenti con scioltezza mantenendo sempre vivissima la sensazione cortocircuitale nella quale si proiettano fin dalle prime battute. I brani del nuovo “Things To Do Today” dal vivo risultano ancora più vorticosi e incendiari. Track pazzesche come “It’s a Long Way to the Top” esaltano il pubblico che si lascia ben volentieri trascinare verso territori al confine di un isterismo frenetico e originalissimo.

Doppia batteria, trovate elettroniche, qualche sbavatura dovuta al continuo azzardo sonoro e al ritmo incessante; sono queste le caratteristiche che fanno dei Disco Drive una band fuori da ogni possibile definizione. Difficile trovare gruppi che sul palco danno tutto con questa energia e con tale espressività.

Mai, per nessun motivo, vorremmo capitare sotto una bacchetta di Jacopo Corazzo ma, sicuramente, abbiamo molti argomenti per ricapitare sotto il palco di un loro concerto.

lunedì 1 marzo 2010

Paolo Tocco: intervista


Paolo Tocco è un ragazzo in gamba. Ingegnere, chitarrista autodidatta, ex prestigiatore, si è avvicinato alla musica con un album, Anime sotto il cappello, fatto di canzoni autentiche che narrano storie personali di vita quotidiana. Mentre si gusta i consensi che quest’opera prima sta riscontrando, inizia già a pensare a un nuovo lavoro, da costruire con più esperienza e con maggiore consapevolezza. Gli abbiamo rivolto una serie di domande per capire cosa ha da dire attraverso il suo modo di essere cantautore istintivo, narratore di qualità e serio professionista.

Sul comunicato stampa di Anime sotto il cappello è scritto che questo lavoro rappresenta una «scommessa contro la plastica musicale che si impone al mercato». A qualche mese dalla pubblicazione, com’è il risultato parziale?

Forse qualche mese non è abbastanza per veder arrivare dei risultati. Già la pubblicazione, in fondo, è un gran risultato per me che sono appena all’inizio di questo lungo viaggio. Una pubblicazione che arriva dopo un anno di consensi e di ottimi riscontri da parte di tutti coloro che per caso, o per dovere, hanno ascoltato la mia musica. Adesso raccolgo senza mai smettere di seminare. La “plastica musicale” c’è sempre, ma mi sto accorgendo che ci sono anche molti spazi e molti grandi professionisti che sfidano e battono questa “plastica” ogni giorno. Sono degli ottimi modelli da guardare per crescere; l’essermi messo in viaggio mi ha dato la fortuna di incontrarne tanti e spero di incontrarne sempre.

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Ugo Mazzei: intervista


Scambio di mail con Ugo Mazzei, cantautore dalle idee chiare e dello stile vissuto. Il suo album d’esordio Pubblico e Privato ha destato la nostra curiosità, per via della sicura ricercatezza mostrata nell’intreccio tra parole e musica e per quel modo espressivo pieno di ironia tipico dei più grandi. Consapevole delle difficoltà, ma certo dei propri mezzi, il Nostro ci racconta alcuni significati delle sue canzoni: solida base di partenza per progetti più ambiziosi e complessi.

Qual è stato il percorso che ti ha portato a realizzare il tuo album di esordio?

L'intravedere uno spiraglio di luce nuova sulla canzone d'autore, e da lì finalmente uscire con un lavoro pieno di sonorità da me amate negli anni.

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Sandy Muller: intervista


Abbiamo rivolto alcune domande a Sandy Müller, pochi giorni dopo il concerto di presentazione del suo terzo lavoro in studio “Falsa Rosa”. La cantautrice italo-brasiliana ci ha spiegato i perché di un progetto lontano dalle consuetudini, fatto di undici brani cantati sia in italiano che in portoghese su uno sfondo musicale di altissimo spessore. Un progetto capace di andare oltre le semplici apparenze.

Qual è il significato di “Falsa rosa”?

Sandy Muller: Una rosa quando è falsa può anche essere bellissima, ma non profuma. La sua immagine non corrisponde a quello che è veramente. La falsa rosa è quindi un invito a non fermarsi alle apparenze e a toccare con mano la realtà prima di giudicarla.


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