giovedì 17 giugno 2010

The Shape of Jazz to Come? Piero Delle Monache

Piero Delle Monache è uno che non sa stare fermo. Saxofonista con le mani in pasta in diversi progetti, laureato al Conservatorio con una tesi affascinante dal titolo "Lo Zen e i sovracuti: un metodo didattico per imparare a suonare il sax con naturalezza," produttore dell'etichetta Altotenore, prossimo direttore artistico dell'FB Jazz Festival: la sua è un'attività completamente immersa nell'emisfero jazzistico. Lo abbiamo intervistato dopo l'uscita di Welcome, il primo mini-album inciso come leader.

All About Jazz: Raccontaci come è andato il primo incontro con il sax e con il jazz.

Piero Delle Monache: Il sax è arrivato grazie a... una birra! A tredici anni mi sono innamorato della pubblicità della Heineken, quella in cui un sassofonista e un clarinettista suonano in un club. Sono rimasto affascinato da quel suono, da quel mood, dal fatto che intorno a due musicisti potesse crearsi una festa. Ho detto subito a miei che mi sarebbe piaciuto iniziare a suonare, e pochi giorni dopo mio padre ha scoperto che un suo collega aveva un alto in vendita. Incredibile, no? La passione per il jazz è nata dopo, grazie ai primi concerti ai quali ho assistito, ai primi dischi, e alle prime lezioni. Sonny Rollins on Impulse! è stata solo la prima, autentica, folgorazione.

AAJ: Qual è stato il tuo percorso di formazione e quando hai capito di essere diventato musicista a tutti gli effetti?

P.D.M.: Negli anni del liceo ho frequentato l'Accademia Musicale a Pescara. Poi nel 2001 mi sono trasferito a Bologna per l'università (triennale in Scienze Economiche), ma tra i tanti posti nei quali potevo andare ad abitare sono finito proprio davanti casa di Piero Odorici, e ovviamente è successo per caso. Inutile dire che ho passato molto più tempo da Piero, o alla Cantina Bentivoglio, o da Nannucci - un bellissimo negozio di dischi che ora non c'è più -, che in facoltà. Negli stessi anni ho seguito anche moltissimi seminari: Siena, Perugia, Roma, ed è lì che ho conosciuto molti dei musicisti con i quali suono tutt'ora. È in quel periodo che ho capito che la musica stava diventando anche una bella professione, che impegnandomi avrei potuto vivere della mia passione, e che in fondo io e l'economia avremmo volentieri fatto a meno l'uno dell'altra. Credo che il percorso di formazione non si interrompa mai veramente: prima o poi cambia forma, magari da studente diventi insegnante, aumentano i concerti e le responsabilità, ma la curiosità che ti ha spinto a cominciare resta sempre la stessa.

AAJ: Quali sono i progetti musicali che stai portando avanti?

P.D.M.: Sono in un periodo di passaggio, il mio trio italiano si è sciolto da poco e sto dando vita a un nuovo progetto, ma per ora non voglio anticipare nulla. Da quando vivo a Bruxelles (o meglio, da quando ho casa a Bruxelles, perché sono sempre in viaggio) ho anche un quartetto belga, con Nicola Andrioli al piano, Hendrik Vanattenhoven al contrabbasso e Mimi Verderame alla batteria. Sono davvero entusiasta di tutto il gruppo e degli ultimi concerti con questa formazione. Spero di portarla presto anche in Italia. Poi c'è FBJazz, che non è un gruppo ma un festival e un concorso. Sono stato incaricato della direzione artistica di questa bella iniziativa che si terrà a San Giovanni Teatino (CH) dal 26 al 29 luglio. Stiamo organizzando la prima edizione e dietro all'entusiasmo si nascondono anche tanto lavoro e un doveroso controllo dei dettagli. Il progetto è molto ambizioso, sono felice del modo in cui si sta sviluppando e della libertà con la quale posso dare il mio contributo.

AAJ: Il tuo mini-album Welcome documenta un certo rispetto per la tradizione jazzistica, ma anche la voglia di spostare in avanti le coordinate di un canone in mutamento continuo. Come si è sviluppato il progetto?

P.D.M.: Welcome è nato in un modo del tutto naturale. Quando abbiamo registrato, nel settembre 2008, avevo un trio (il Ja.ck) con Francesco Diodati e Alessandro Paternesi. Ero molto contento dei nostri concerti, ma sentivo che il gruppo non era ancora abbastanza maturo per entrare in studio, così ho pensato di allargare la formazione a un sestetto e coinvolgere anche Giovanni Ceccarelli, Matteo Bortone e Andy Gravish. In questo modo avremmo avuto a disposizione molti più "colori" e molte più soluzioni di arrangiamento e, nello stesso tempo, non ci saremmo trovati davanti ai problemi di una formazione bass-less.

AAJ: Solo sei brani raccolti in poco meno di mezz'ora. Scelta dettata da quale motivo?

“Suonare è come chiacchierare con qualcuno: quando suono esprimo me stesso e mi piace l'idea di essere ascoltato e, nello stesso tempo, di ascoltare chi mi sta intorno e di fronte.”

P.D.M.: La scelta del minialbum è dipesa da molti fattori, ma anche da esigenze "editoriali": Welcome, oltre che il mio primo lavoro da leader, è anche il primo numero del catalogo Altotenore. Come produttore artistico sentivo l'esigenza di dare da subito un carattere originale alla mia etichetta. Volevo un disco "leggero" in tutti i sensi, con un packaging moderno e insolito, un'immagine che avesse un impatto diverso da quello che generalmente hanno le copertine dei dischi di jazz, e un prezzo invitante (7,90 euro). L'immagine complessiva del prodotto mi sembravano perfetti per una mezz'ora di musica, ma non per un disco intero, così ho optato per questo formato lasciando fuori altri quattro o cinque brani che abbiamo registrato nella stessa session e che magari recupereremo più avanti. Questa fase di post-produzione è stata forse la più intensa e l'ho vissuta con lo spirito di un regista che, finite le riprese, riguarda tutto il "girato" e inizia a montare le scene e a scegliere quale peso dargli all'interno del lavoro. Se poi il regista è anche attore del film, bisogna valutare quale ruolo ritagliare per se stessi. Devo dire che sono molto soddisfatto del risultato finale, e soprattutto di quanto alcune scelte per così dire "rischiose" (come quella del formato breve, o di una scaletta nella quale i brani che vedono protagonista la mia voce strumentale sono pochi, o della "sorpresa" che chiude il progetto) si stiano rivelando molto piacevoli per il pubblico. Un'altra cosa che mi preme ricordare è che della produzione esecutiva si è fatta carico Banca Serfina, una giovane realtà abruzzese nella quale, per puro caso, ho scoperto che si nascondono due grandi appassionati di musica. Sono molto grato per quanto hanno fatto per me, e spero che la nostra collaborazione continui nel tempo.

AAJ: L'ultimo brano è la rivisitazione in chiave elettronica di "Miramare". Qual è il tuo rapporto con i suoni sintetici? Pensi che in futuro bisognerà spostarsi sempre di più verso questa direzione?

P.D.M.: Si tratta di un'opera di mio fratello Andrea, che nelle vesti di producer hiphop si fa chiamare Deli, e che qualche giorno prima che andassi in studio a Forlì per il mastering del disco mi ha fatto ascoltare la versione revisited di "Miramare". Dato che stavo cercando un contenuto extra per chiudere l'album, la sua idea mi è sembrata subito perfetta. Non si allontanava troppo dal sound delle altre tracce e nello stesso tempo proiettava il disco in un'altra dimensione. Quanto ai suoni elettronici, non credo che utilizzarli voglia dire essere moderni, e quindi la direzione giusta nella quale andare. Semplicemente, quando abbiamo registrato questo disco avevo voglia di quel sound. Ho chiesto a Giovanni (Ceccarelli, ndr) di suonare anche il Fender Rhodes e a Francesco (Diodati, ndr) di fare quello che fa sempre. E lui si è presentato in studio con la sua solita valigia di effetti.

AAJ: Quali sono gli aspetti sui quali vuoi concentrarti per progredire ulteriormente e i punti di forza del tuo modo di fare musica?

P.D.M.: In questo periodo sto lavorando molto sul ritmo. L'anno scorso ho avuto la fortuna di fare da assistente a Mark Turner durante un workshop a Roma, e la prima lezione avrebbe potuto intitolarsi "Tutto quello che avreste voluto sapere sul metronomo e non avete mai osato chiedere". Frequentare Mark è stato uno stimolo incredibile, è un insegnante fantastico e una bellissima persona. Quanto ai punti di forza... bella domanda! Diciamo che qualunque sia il contesto nel quale sto suonando (il palco di un club, o di un teatro, o uno studio di registrazione, o il salotto di casa di un amico), l'unica cosa che mi interessa davvero è la condivisione di quello che sto facendo. Per me suonare è come chiacchierare con qualcuno. Quando suono esprimo me stesso e mi piace l'idea di essere ascoltato e, nello stesso tempo, di ascoltare chi mi sta intorno e di fronte. In fondo, un concerto è come una cena tra amici, nella quale si passa da temi banali, affrontati comunque con coscienza, a momenti più profondi e intellettuali, ma che poi sfociano, quasi inevitabilmente, in una risata. Quando organizzo le scalette dei miei concerti, il mio intento è proprio questo: creare situazioni sempre diverse ma sempre vere. L'anno scorso dopo un concerto a Bruxelles con Flavio Boltro, un giornalista ha pubblicato una recensione nella quale definiva la mia musica "complessa ed efficace al tempo stesso". Ecco, mi piacerebbe che fosse sempre così.

AAJ: Se accendo il tuo iPod, cosa trovo in play?

P.D.M.: Ho un 4 giga, dunque non moltissimo spazio, ma c'è qualcosa che porto sempre con me: Glenn Gould, Pedrão (un musicista di Samba che io e la mia ragazza abbiamo scoperto a Lisbona l'estate scorsa), ovviamente moltissimo jazz, un paio di dischi del Radiohead, e i tre o quattro pezzi "leggeri" italiani che riescono sempre a farmi sentire meglio quando ne ho bisogno. Generalmente scelgo la musica da caricare nell'iPod in modo molto istintivo, ma ogni tanto mi fermo a pensare al perché certi dischi (magari stilisticamente diversissimi tra loro) restano lì dentro per mesi o anche per anni. Sicuramente ci sono vari parametri assoluti che superano i generi e che danno una logicità alle mie playlist e, spero, anche ai miei progetti.

AAJ: Nella tua vita, oltre che per la musica, quali altri interessi o passioni coltivi?

P.D.M.: Il cinema (soprattutto Woody Allen), l'arte moderna (Picasso, Mirò, Modigliani in primis), i viaggi e ultimamente la cucina. Tra l'altro ho scoperto che moltissimi musicisti amano cucinare, inventare qualcosa con quello che trovano in frigo, o inserire elementi presi a prestito dalla cucina orientale o africana nei piatti italiani. In fondo anche questo è jazz, no?


Foto di Hamilton Lake (la prima e la seconda), Ulisse Cipriani (la terza) e Bernard Rosenberg (la quarta)


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