domenica 8 maggio 2011

Felice Clemente Quartet: Nuvole di carta


Crocevia di suoni Records
LPD004
8033897670041
56’09”
CD
Jazz
Si compone di otto originali – cinque dei quali a firma del leader – e della rilettura di The Young Prince and Princess il nuovo lavoro di Felice Clemente dal titolo Nuvole di carta. Il saxofonista, che si alterna con estrema scioltezza tra soprano e tenore, costruisce le linee caratteriali di quest’album sulla forza melodica dei suoi soli, che – adagiandosi su una solida intelaiutura ritmica e formale – disegnano scenari ora ombrosi e colmi di fascino, come nella title track, ma anche timbricamente variopinti e pieni di tangenti espressive (To MJB). Da sottolineare, oltre all’ottima prova d’insieme, la prestazione del pianista Massimo Colombo, che si lascia apprezzare per il lavoro di retroguaria, per la prontezza nel dialogo con il leader, ma anche - e soprattutto - per alcune pagine scritte con estrema eleganza e precisione.
Roberto Paviglianiti
qualità musicale 7
tecnica 7,5

sabato 12 febbraio 2011

Quintorigo: Live @ Circolo degli Artisti, Roma 11.02.2011

I Quintorigo dal vivo non deludono mai. Forti di una formazione rodata da anni di militanza e di un vocalist poderoso come Luca Sapio (a proposito del quale possiamo parlare di un'altra scommessa vinta dalla band in un cammino artistico tortuoso), regalano al pubblico del Circolo degli Artisti di Roma l'ennesima prova di potenza, intelligenza formale e precisione esecutiva.
I brani del nuovo lavoro in studio "English Garden" ancora non sono stati assimilati dai fan, anche se dal palco emergono in una dimensione maggiormente aspra, votata a un groove scurissimo, e pronti ad essere proposti anche fuori dai confini nazionali. Sapio trascina la band attirando le attenzioni su di sé, assolutamente padrone dei propri mezzi, al centro della scena. Timbro importante, interpretazioni da frontman navigato, feeling con il pubblico. Dietro di lui il consueto muro di suoni elettrificati che Valentino Bianchi e soci sanno erigere come pochi altri.
Anzi, il loro è un raro esempio di band capace di muoversi con delicatezza su lastre di ghiaccio sottilissime e un minuto dopo affondare colpi diretti che fanno tremare i muri del club capitolino.
In scaletta qualche successo di un passato indimenticato ("Kristo sì", "La nonna di Frederick") e alcune cover che ormai fanno parte del substrato cutaneo dei Quintorigo, vedi la splendida versione di "Heroes", chiudono il cerchio attorno a un'espressione artistica notevole, che dopo un'ora e mezza lascia malvolentieri spazio all'incombente dj set.

venerdì 4 febbraio 2011

Negramaro: Casa 69


“Casa 69” è l’abum più complesso dei Negramaro, sia dal punto di vista prettamente musicale che concettuale. La band, nel frattempo giunta al quinto lavoro in studio di una carriera consacrata dal largo consenso di pubblico, si identifica e fonda i suoi principali tratti caratteriali - come diversamente non potrebbe essere - sui timbri e sull’interpretazione vocale di Giuliano Sangiorgi, il quale firma i testi di tutti i brani in scaletta.

Diverse sono le canzoni dai toni soffusi e pensosi che danno respiro – e impreziosiscono - una tracklist importante (composta da sedici brani e ben diciotto nell’edizione deluxe) dove le parole di Sangiorgi risaltano con fragore, mettendo in evidenza la tematica dell’incomunicabilità attorno alla quale si fonda l’intero lavoro.

Da copione non mancano i potenziali singoli trascina folle, come “Io non lascio traccia”, arricchita nelle note finali dalla voce recitante di Carmelo Bene al quale è dedicato il brano, o la melodiosa “Sing-hiozzo”; poi ci sono diversi passaggi dal taglio maggiormente rockettaro, frutto del lavoro svolto in studio col produttore David Bottrill , che avvicinano la band a certe sonorità indie italiane esportabili, leggi gli Afterhours degli ultimi anni.

A margine va segnalata la presenza di Elisa nel brano radio friendly “Basta così” e la magnifica copertina, che ritrae una scultura in vetro opera del bassista Ermanno Carlà, di un album che potrebbe rappresentare una piccola svolta nel cammino della band salentina, che seppur investendo molto sulla causa sembra ancora troppo concentrata sull’effetto.

Regina Mab: Col sole in fronte


Se dal precedente Palle da Tennis ad emergere era stato il lato ironico della cifra caratteriale dei Regina Mab, dal nuovo Col sole in fronte viene fuori il pensiero profondo - e colmo di significati - di una band alla quale va riconosciuta un’originalità non comune.

I ragazzi di Verona sviluppano il loro credo musicale servendosi di un modo espressivo che fa leva sulla voce narrante di Franco Manzini, il quale si muove in primo piano su uno sfondo acustico (chitarre, basso, batteria accennata), che all’occorrenza sa colpire con decisione.

Questa volta non sono i tennisti di inizio secolo i protagonisti della vicenda, ma Rita Rosani, ventenne maestra elementare di religione ebraica, che si arruolò nei partigiani e ricevette, dopo morta, la medaglia d’oro al valore civile. Manzini si serve dei testi originali di Paolo Ragno per tracciare le coordinate della società italiana ai tempi del fascismo e della Seconda Guerra Mondiale, prima di entrare direttamente nelle vicende che hanno caratterizzato il percorso della Rosani, una ragazza vogliosa di far valere le proprie idee e i propri ideali di libertà. Quella “Libertà”, presa dal songbook di Giorgio Gaber, che apre e chiude questo lavoro dove trovano posto anche altri due brani reinterpretati e adattati al contesto, come “My Generation” degli Who e “Teardrop” dei Massive Attack.

Col solo in fronte è un album che cattura l’ascoltatore grazie, soprattutto, alle capacità narrative di Manzini, che con le sue inflessioni dialettali, gli accenti e le sottolineature traduce in musica le immagini in bianco e nero di una storia che ancora oggi riesce a commuovere e far riflettere.

Dieciunitàsonanti: manuale d'ascesa e caduta


Dieciunitàsonanti è la classica rock band – con inclinazione sul versante pop - composta da chitarra, basso, batteria e voce in primo piano. Nello specifico quella di Alessandro Sfasciotti, che attraverso i testi cantati in italiano descrive la società del nostro tempo, con tutte le sue contraddizioni e le sue incertezze.
“Manuale d’ascesa e caduta” è un album d’esordio realizzato dopo un paio di ep e una considerevole gavetta di live performace, composto da undici brani dall’andamento uniforme, assonante, senza grandi strappi né sotto profilo melodico né dal punto di vista stilistico.

La forza di questo lavoro va ricercata nelle metafore e nei sottintesi, che descrivono l’arrivismo delle nuove generazioni, le realtà tragiche e la crisi dilagante, mettendo in primo piano l’individuo e soprattutto quel sottilissmo filo che divide il momento dell’ascesa e quello della caduta di un uomo.

lunedì 10 gennaio 2011

Perdizione cantautorale - intervista a Ettore Giuradei

Perdizione cantautorale - Ettore Giuradei - L'Isola della Musica Italiana


Ettore Giuradei
Perdizione cantautorale


Il cantautore bresciano Ettore Giuradei si è fatto notare in ambito indie con un paio di album – “Panciastorie” del 2005 e “Era che così” del 2008 - che gli hanno fatto guadagnare diversi consensi da parte degli addetti ai lavori e, soprattutto, gli hanno permesso di presentarsi alla fatidica terza prova con molta fiducia nelle proprie qualità. La speranza che traspare dalle sue parole è che “La Repubblica del sole” (Novunque/ Mizar) può rappresentere la svolta decisiva per un cammino ancora più denso di soddifazione.

La biografia sul tuo sito ufficiale inizia con la definizione di “cantautore atipico”. Cosa vuol dire?

Penso che sia proprio il fondo della nostra ricerca, che è poi il tentare di staccarsi dalla classica etichetta di cantautore, spingendo il nostro lavoro verso una musica, tra virgolette, più viscerale, un po’ più rockettara. Soprattutto dal vivo si può capire di più la definizione di “cantautore atipico”, proprio perché c’è una componente fisica molto potente.

È un voler distanziarsi dalla scena cantautorale italiana?

Sì, in riferimento a quello che è da sempre il cantautore per l’italiano medio.

C’è qualcosa che non sopporti dell’ambiente cantautorale?

Una cosa che non sopporto è che ancora non c’è quella totale libertà di accettare che la canzone d’autore può essere portata avanti non come genere, ma come qualità del testo. Ci sono degli artisti che scrivono delle cose molto interessanti e profonde, basterebbe questo per farli rientrare nei cantautori, mentre c’è ancora una parte di esperti di canzone d’autore che sono legati alla figura del cantauore acustico, al cantautore un po’ intellettuale, che è una figura che non abbiamo mai apprezzato fino in fondo.

Da "Era che così" (2008) ad oggi, cosa hai fatto?

Abbiamo fatto un tour praticamente interminabile di quasi 200 date, e nel frattempo da luglio 2009 abbiamo iniziato a lavorare al nuovo album “La Repubblica del sole”. Il percorso che ci ha portato all’album è stato molto lungo. Abbiamo fatto dei provini a luglio, altri a novembre a casa nostra, dove abbiamo allestito uno studio, e poi ci ha affiancato il produttore Paolo Iafelice, con il quale abbiamo fatto insieme una parte del lavoro nel suo studio Adesiva Discografica. Infine dopo il master di fine settembre abbiamo ottenuto la realizzazione del disco.

Parli sempre al plurale, questo fa intendere che il vostro è un lavoro di gruppo.

Sì, soprattutto con mio fratello Marco, che dal primo album è il mio collaboratore di fiducia, insostituibile, e dopo c’è una situazione più allargata, di gruppo, che comprende il nostro fonico Domenico Vigliotti, che ha seguito i processi realizzativi del disco.

I nuovi pezzi sono nati durante il tour?

Non tutti, un brano doveva finire su “Era che così”, però non avevamo ancora trovato l’arrangiamento adatto, altri due sono di un periodo precendente, mentre gli altri sì, sono nati durante questi due anni.

Cosa li rende comuni?

La decisione di chiamare il disco “La Repubblica del sole”, oltre per la canzone omonima, è perché i brani toccano dei temi che riguardano in modo molto attuale la situazione italiana vissuta personalmente da ognuno di noi, da ogni uomo. Quindi sono sensazioni che spero che molte persone abbiano vissuto in questi anni, era un modo di dire che “La Repubblica del sole” è composta da persone che provano questo tipo di sensazioni e queste emozioni.

È un album di speranza futura o è solo il punto della situazione?

È più una speranza, effettivamente il disco parte con la title track che è il brano più speranzoso e positivo e si chiude con un brano che ci riporta alla realtà dei fatti che sicuramente non sono come quelli descritti ne “La Repubblica del sole”. È una speranza con la coscienza che bisogna distruggere tutto quello che esiste.

Rispetto al passato s’avverte netta una maggiore ricercatezza melodica.

Come al solito le canzoni finisco sul disco, tra virgolette, come nascono. Forse abbiamo lavorato un po’ di più sulle strutture, quindi sugli equilibri, e la scelta di avere Paolo Iafelice come co-produttore era una scelta che ci portava ad avere un prodotto più curato, soprattutto per quanto riguarda la voce e dopo sì, ci sono tre o quattro canzoni che a mio avviso hanno un ritornello molto melodico.

Molto orecchiabile è anche il brano “Piedi alati”. C’è voglia di maggiore visibilità, di fare presa più velocemente sul pubblico?

È stato proprio un caso che all’interno delle canzoni mi sono ritrovato questi ritornelli, che effettivamente erano molto forti, quindi abbiamo cercato di dargli maggiore importaza, sapendo che potevano essere un’arma in più per arrivare a più persone.

Stile che vira anche verso sonorità pop, come in “Eva”.

Sì, per assurdo il ritornello è anche molto “vascoso”, se mi passi il termine. Però anche “4 Matrimoni”, che richiama nel ritornello le aperture alla Vasco. Non abbiamo mai voluto abbandonare la parte rockettara, che abbinata a un ritornello che funziona, fa in modo che il pezzo riesca ad arrivare a tanta gente.

Stilisticamente sei un artista dal doppio aspetto. Ti senti più da serata a lume di candela o animale da palco?

L’intenzione è quella di creare uno spettacolo live con i pezzi dei tre album e dare la possibilità al pubblico di passare tranquillamente da un genere all’altro. Questa cosa nasce dalla nostra volontà di non fissarci su un genere. In riferimento alla domanda spero di creare durante un concerto sia l’atmosfera intima e sia di creare il momento, per assurdo, punk.

Quando componi, pensi a come il pezzo funzionerà sul palco?

Prima si conclude il pezzo, che è la cosa più importante, e poi si pensa a come strutturare una scaletta che ha come intenzione quella di soprendere il più possibile chi ti ascolta. Siamo convinti che la sorpresa serva a interessare e coinvolgere la gente.

Nella scrittura emergono elementi legati a una certa tradizione popolare.

Siamo molto paesani, siamo molto inseriti nel nostro territorio e siamo molto influenzati dalla vita del paese, la viviamo noi per primi. Scendo spesso in paese, incontro gente e questa esperienza in qualche modo rientra nelle canzoni.

La tua non è proprio una voce radiofonica e la vostra proposta musicale non è tra le più consuete. La ritieni difficile da assimilare?

A mio avviso no. Spero con questo disco di esser riuscito a trovare quell’alchimia giusta per far uscire una melodia abbastanza commerciale abbinata a dei testi un po’ più profondi dei classici testi pop che ci arrivano in questo momento.

Qual è la tua attuale speranza?

Spero che la promozione vada molto bene per questo disco perché ci crediamo veramenete tanto. Se non dovesse andar bene la vedo veramente grigia. Speriamo di arrivare a più gente possibile.

Altrimenti?

Non lo so sinceramente. Però siamo convinti che con questo disco e con il live, che è la cosa che ci tiene a galla a livello di speranze ed emozioni, tanti si ricorderanno di noi perché lo stiamo curando veramente bene.

Uscendo da un vostro concerto cosa vorresti sentir dire alla gente?

Cazzo, bravissimi!

martedì 4 gennaio 2011

Last Project: Feeling Good in Your Shoes


I The Last Project sono una band di stanza a Pavia che, trascorse alcune esperienze in ambito indie con il nome di GateZero e dopo aver trovato in Francesco Quaranta la voce giusta per il nuovo progetto, ha dato alle stampe il proprio ep di debutto Feeling Good in Your Shoes.

Si tratta di quattro brani cantati in inglese che riescono a tradurre un pop fresco e spensierato capace di rimandare alle atomosfere colorate del british sound degli anni ’60, impreziosite e personalizzate dal taglio essenziale degli arrangiamenti. Scorrono piacevolmente e senza grinze le varie Don’t Run Away, Goodbye e Waiting for Someone, grazie soprattutto alla voce del nuovo frontman che imprime una timbrica melodicamente assonante e levigata, mentre paga pegno A Perfect Mask, eccessivamente piegata alle soluzioni ritmico/melodiche che hanno fatto la fortuna di gruppi come i Franz Ferdinand, ma che allo stato attuale risultano decisamente fuori tempo massimo.

mercoledì 22 dicembre 2010

isolati: interviste su l'isola

Ultimavera: Racconto d'autunno

Zibba: Uno vero

Ugo Mazzei: Cantautore per vocazione
Paolo Tocco: Emozioni in musica
Casa del Vento: Quando fischia la sirena

Cupa ironia: intervista a Caterina Palazzi


Non si incontra tutti i giorni una musicista dalle idee chiare come Caterina Palazzi. Alla guida di un quartetto legato da amicizia e stima reciproca - completato da Danielle Di Majo (alto sax), Giacomo Ancillotti (chitarra) e Maurizio Chiavaro (batteria) - e forte del convincente album d'esordio Sudoku Killer, la giovane contrabbassista ci racconta come nascono le sue composizioni: scure come la trama di una pellicola noir e intriganti come un giochino di logica matematica.

All About Jazz Italia: Sudoku Killer è il tuo primo album come leader. Il titolo racchiude un significato particolare?

Caterina Palazzi: Ha un duplice significato. L'idea di dare al disco questo titolo scaturisce da due motivi principali. Il primo è che siccome sono una grande appassionata di matematica e di giochetti di logica - il sudoku killer è una variante del normale gioco del sudoku - volevo che il mio lavoro musicale rispecchiasse questa componente caratteriale che è abbastanza presente. Il secondo motivo è che nel CD c'è un intreccio di storie che parlano di cose diverse, ma che hanno un filo conduttore, un po' come il sudoku che è un intreccio di numeri apparantemente scollegati tra loro, ma che hanno un filo logico che li accomuna.

AAJ: In effetti le tue composizioni hanno uno sviluppo di tipo cinematografico, dietro questo modo di scrivere c'è una passione specifica?

C.P.: Sì, assolutamente. Sia per la letteratura che per il cinema. Sono un'appassionata, vedo molti film e leggo molti libri, che poi influenzano la mia scrittura musicale. Per esempio il brano "La lettera scarlatta" è ispirato all'omonimo libro, mentre, parlando di cinema, "La vedova nera" è ispirato a un film di Truffaut che si chiama "La sposa in nero," ma in generale ogni pezzo descrive delle storie e molte persone mi dicono che quando li ascoltano immaginano una sorta di film. Di solito, sul palco, prima di eseguire un pezzo ne spiego la storia, e le persone poi mi riferiscono le loro sensazioni a riguardo. C'è un forte richiamo cinematografico nella musica che faccio, quindi tendo sempre a dire due parole per spiegare il pezzo per fare in modo che il pubblico si immagini lo svolgere della trama, anche se non è davanti a uno schermo.

AAJ: L'idea di comporre una colonna sonora potrebbe piacerti?

C.P.: Perché no. Sarebbe interessante, non è la mia massima aspirazione, ma sarebbe sicuramente bello.

AAJ: Anche le ambientazioni scure che utilizzi rispecchiano il tuo modo di essere?

C.P.: Sicuramtne sì, la sonorità del CD è cupa, c'è una prevalenza di pezzi minori, è una cosa che si può notare. Però è pure vero che è cupo, che è noir, come del resto è il mio carattere, ma c'è anche parecchia ironia. Noir sì, ma con un pizzico di ironia.

AAJ: In Sudoku Killer si avverte netta una importante coesione di gruppo.

“In realtà il contrabbasso non è che proprio l'ho scelto. A un certo punto è stato proprio un'esigenza.”

C.P.: Noi siamo proprio un gruppo. Certo, i pezzi sono miei, sono io che metto più bocca a livello artistico, però loro sono il mio gruppo, non potrei suonare questi pezzi con altre persone. Poi ovviameente nella vita non si sa mai come vanno le cose, però mi piace il fatto che siamo cresciuti insieme, che abbiamo montato insieme il repertorio, che giriamo l'Italia insieme per presentare il disco.

AAJ: Il vostro è un rapporto che va oltre la semplice stima tra musicisti?

C.P.: Sì, a mio avviso per suonare bene insieme non ci si può non stimare tra persone. Soprattutto se passi così tanto tempo insieme. Noi suoniamo molto, da quando è uscito il disco abbiamo fatto circa cento date dal vivo, per cui se non vai d'accordo umanamente diventa stessante. Invece noi siamo anche amici.

AAJ: Qualcuno definisce la tua musica "inquietante". Che ne pensi?

C.P.: Sentire un concerto di tutti pezzi miei può, in un certo senso, turbare. Perché l'atmosfera è molto cupa. Però mi piace il fatto che risulti inquietante, lo ritengo un complimento, mi piace. Molto meglio di noioso. Qualunque sensazione desti la musica, l'importante è che comunichi qualcosa.

AAJ: Un album che si distacca parecchio dalle peculiarità di un tipico suono jazzistico.

C.P.: Sono partita suonando la chitarra in gruppi punk rock. Ho un passato tutt'altro che jazz. Al jazz mi sono appassionata verso i venti anni; ho studiato il jazz tradizionale, ho avuto il mio periodo di fissa per quel genere, invece poi - quando ho cominciato a scrivere e deciso di avere un gruppo mio che facesse pezzi miei - sono tornate le influenze del passato. Quindi oltre al jazz c'è molto rock in quello che faccio, musica d'autore, musica elettronica, blues. Ascolto la musica in generale, non ascolto solo jazz e credo che poi questo si senta. Le influenze sono molteplici.

AAJ: Perché hai poi scelto di suonare il contrabbasso?

C.P.: In realtà il contrabbasso non è che proprio l'ho scelto. A un certo punto è stato proprio un'esigenza. Ho suonato la chitarra per otto anni, fin da piccola dicevo ai miei genitori che volevo diventare una musicista, ma sentivo che nel corso degli anni la chitarra non era il mio strumento. Quando ho toccato per la prima volta il contrabbasso ho capito che era quello che dovevo suonare. È stato una sorta di incontro casuale che si è rivelato quello giusto per me. Il fatto che poi sia così grande è un po' come andare a suonare in due, è come un essere umano che ti porti dietro, la statura è quella. Mi fa sentire meglio l'idea di avere uno strumento con cui dialogare.

AAJ: Si tratta dunque di un'esigenza fisica.

C.P.: Sì, mi ci appoggio proprio sopra. Il contrabbasso è bello perché è una sorta di prolungamento di te stesso, mentre la chitarra e il pianoforte - per esempio - sono più staccati. Ognuno sceglie il suo strumento a seconda di quello che prova toccandolo, per me è stato amore a prima vista.

AAJ: Non ci sono molte contrabbassiste, ti consideri un eccezione?

C.P.: Di sicuro non siamo in tante, anche perché la cosa veramente dura, oltre al fatto che all'inizio per suonarlo ti sanguinano le dita, è che si tratta di uno strumento faticoso, è difficile anche portarselo dietro, nel trasporto. Me lo porto in giro tutti i giorni, per le scale, in macchina, e ogni volta che lo faccio penso: "mamma mia, quanto mi piace questo strumento!" altrimenti suonerei il basso elettrico. Quindi è un sacrificio, ci vuole molta forza di volontà, anche se poi ti ripaga di tutto.

AAJ: Sei una musicista ancora molto giovane, immagino che avrai molti sogni da realizzare e progetti da portare avanti.

C.P.: Continuare così è già un sogno. L'idea di suonare la mia musica in giro per l'Italia e magari anche un giorno fuori dall'Italia e poter vivere così, non credo di poter chiedere tanto altro. Sono molto contenta di come è andato il primo disco, ho già delle idee per il secondo. Il sogno è quello di continuare e di evolvermi.

AAJ: Qualche anticipazione?

C.P.: È presto per parlarne. Sono contenta di come sta andando il primo album, che è stato ristampato due volte. Nei pezzi nuovi sto prendendo una direzione più sperimentale. Ho fiducia che il secondo mi piacerà più del primo.

sabato 18 dicembre 2010

Girolamo De Simone: Ai piedi del monte

Girolamo De Simone: Ai piedi del monte # KonSequenz/Hanagoori Music, 2010

Girolamo De Simone (pf, spinetta, organo)


Girolamo De Simone oltre ad essere un operatore culturale, scrittore e direttore artistico è anche, e soprattutto, un compositore dedito da molti anni alla ricerca di nuovi linguaggi espressivi e alla valorizzazione di repertori inediti. “Ai piedi del monte” non tradisce le peculiarità del pianista partenopeo e raccoglie, in poco più di mezz’ora, una scaletta di nove brani che traggono ispirazione dalle opere di Vincenzo Romaniello e Gaetano Donizetti, e da luoghi come il Convento della Verna e, in modo particolare, il monte Somma al ridosso del Vesuvio. Un album dal quale emerge una discrezione esecutiva che si sviluppa su tenui linee melodiche, a tratti solo accennate, capaci di spaziare dalle ampie pagine di elegante classicità ai guizzi più decisi di traditional come il Canto dell’Arco, eseguito alla spinetta, fino ai momenti dal forte impatto religioso e devozionale come Inno alla Vergine e La Verna, che racchiude una delicata improvvisazione organistica.

Fabulae contaminatae / Tristezza dell’anima / Ave / Ultima prece / Tramonto / Il tramonto di Donizetti / Canto dell’arco / Inno alla Vergine / La Verna

live 2010

Francesco Diodati "Neko"

John Abercrombie Organ Trio

Festival dei due laghi

Ravenna Jazz 2010

Dave Douglas & Keystone

Francesco Bearzatti Tinissima Quartet

giovedì 21 ottobre 2010

Ravenna Jazz 2010: il live report



L'edizione 2010 del Ravenna Jazz - la trentasettesima per gli almanacchi - si è svolta con la formula che ha caratterizzato gli appuntamenti degli anni precedenti: doppio concerto per tre sere consecutive, nel mese di ottobre. Un momento della stagione dove l'appassionato di jazz ha archiviato le emozioni dei festival estivi e mette mano all'agenda per scegliere gli eventi di maggiore interesse. Ravenna dunque - città ospitale e affascinante -, a prescindere, è tappa obbligata. Perché la kermesse presenta sempre un cartellone dove si possono trovare spunti di interesse, e perché i concerti si tengono al Teatro Alighieri, una location di bellezza suggestiva dove - e non è roba da poco - si può godere di un'acustica di buon livello.

Tre sere dicevamo. La prima dedicata alla figura di Django Reinhardt, nel centenario dalla sua nascita (23 gennaio 1910), e due che hanno visto protagonista Stefano Bollani e le sue diverse declinazioni artistiche. Ma cosa hanno in comune il geniale chitarrista e il pianista italiano? Probabilmente, il nomadismo. Il primo era nomade per natura, aveva l'anima ambulante, era un irregolare. Come il secondo del resto, che è nomade nell'intenzione: suona da solo, in duo, con l'orchestra; ora è carioca, poi jazz standard, o anche pop all'occorrenza. Ma andiamo con ordine:

8 ottobre: About Django


Ravenna, esterno notte. Sono solo le 20, ma si ha la sensazione che nulla potrà più accadere. Strade deserte, insegne spente, tra i vicoli è caccia all'ultima piadineria aperta, per una cena fugace. Invece, qualcosa accade. Sul palco del Teatro Alighieri salgono cinque figure dissimili. Sono i Manomanouche, band devota alle sonorità di Reinhardt composta da due chitarre, sax, contrabbasso e fisarmonica. Spetta a loro aprire il festival, e lo fanno senza lasciare un segno di grande incisività, anche se nel proprio set vanno rintracciati diversi motivi di interesse. A cominciare dalle doti tecniche dei due chitarristi, Nunzio Barbieri e Luca Enipeo, capaci di elevarsi in discorsi solitari intensi e di precisissima profondità espressiva, ma anche di accompagnare gli slanci del fisarmonicista Massimo Pitzianti e di Diego Borotti al sax, ai quali va riconosciuta una buona versatilità. Un'ora di concerto sviluppata su tempi medio-lenti, dove l'anima di Django è stata omaggiata con un pizzico di nostalgia e senza grandi impennate di esuberanza.

Di tutt'altra andatura il secondo concerto in programma. Sul palco si presenta il Trio Rosenberg: tre cugini olandesi autodidatti, frizzanti, simpatici a pelle. Si mettono in tasca i consensi del pubblico presente - fino a quel momento vagamente assopito - con una versione tiratissima di "What Kind of Friend," che vede Stochelo Rosenberg sciorinare una tecnica chitarristica incendiaria. Velocissimo, capace di un sound efficace e coinvolgente strappa applausi sinceri. Due gli ospiti invitati a prender parte alla serata: il fisarmonicista Marcel Azzola e lo strepitoso violinista rumeno Florin Niculescu. Il primo attenua gli slanci dei cugini indiavolati con una dose massiccia di classe ed esperienza; il secondo ruba letteralmente la scena al resto della band. Il suo modo di suonare il violino è di una bellezza clamorosa: traccia melodie angolari e di notevole attrattiva. Sul finire dell'esibizione si ritrovano tutti e in cinque sul palco, ed è difficile tenere gli occhi fermi su un unico particolare e cogliere tutte le sfumature. Ancora applausi.

Non c'è stato il tutto esaurito in questa prima serata, ma i presenti si sono portati a casa una buona dose di sensazioni positive e uno spaccato interessante sul mondo del gipsy jazz, inquadrato da angolazioni diverse che si sono completate a vicenda.

9 ottobre: Bollani Party 1

Il tutto esaurito era prevedibile per la serata di sabato che ha visto protagonista assoluto Stefano Bollani, prima in duo con Enrico Rava e poi con il Danish Trio, completato da Jesper Bodilsen al contrabbasso e Morten Lund alla batteria. A che punto è la love story tra Rava e Bollani? Sul palco del Teatro Alighieri si è visto un duo che sta attraversando un momento di quieta routine, nel quale si continua a seguire la medesima forma espressiva, fatta di una frammentazione e ricomposizione di standard con in mezzo una serie di intuizioni - soprattutto da parte del pianista - che dilatano e cambiano un discorso altrimenti, dai più, già conosciuto. Il tutto cadenzato da gag e situazioni esilaranti che prendono vita da accadimenti imprevisti: lo scoppio di una luce sul palco, un microfono che si ribalta. Bollani - abbigliamento pop, jeans strappati e maglietta sgualcita - indica la strada da percorrere con il suo consueto approccio multivisionario; contorcendosi sullo strumento come un animale in cerca del pieno godimento. Rava rimane in scia senza tentare mai il sorpasso. Nel complesso li abbiamo visti più ispirati in altre occasioni, anche se il loro set rimane di elevata caratura.

Con il Danish Trio si cambia registro. Bollani sembra più voglioso di creare musica e interloquire con i due danesi. Ne viene fuori un concerto tirato ed entusiasmante. I tre producono musica colorata, distante dalle atmosfere chiaroscurali e pensose dell'ultimo Stone in the Water targato ECM. Bodilsen e Lund tradiscono le loro radici nordiche producendo una spinta ritmica di matrice mediterranea e dall'entusiasmo sudamericano. D'altra parte lo stesso Bollani ha di recente dichiarato di trovarsi in un periodo «vistosamente brasiliano», e forse, inconsapevolmente, questo spinge anche chi gli suona affianco ad usare tinte forti, senza indugi. Un paio di soli di Lund d'accecante bellezza ricevono applausi a scena aperta e restano impressi nei ricordi un concerto senza smagliature.

Uscendo dal teatro stavolta troviamo una Ravenna in festa, è la "Notte d'oro": negozi aperti e musica ovunque, incluso il concerto di un Samuele Bersani sempre in buona vena.

10 ottobre: Bollani Party 2

La rassegna ravennate si risolve con la seconda serata di carta bianca a Stefano Bollani. È la volta dell'esibizione in solo. E come di consueto il pianista non si risparmia. Dedica l'intera performance a «un compositore italiano contemporaneo, che sarei io». Scorrono dunque in sequenza le varie "Elena e il suo violino," "Il barbone di Siviglia," fino alla conclusiva "Buzzillare" richiesta dal pubblico. Temi fatti a coriandoli e rincollati grazie a una capacità unica di andare a pescare in una libreria musicale ampissima, senza il minimo indugio, senza mai un appiattimento di stile, senza cercare il passaggio scontato o la soluzione troppo comoda. Bollani ama rendersi la strada contorta, alla ricerca di una conclusione imprevista e soddisfacente. Le immancabili gag e un'ellissi improvvisativa ispirata rendono il suo percorso solitario di estremo interesse.

Come interessante si è rivelato l'ultimo concerto in programma, unica produzione originale proposta dal festival denominata Bollani e Convidados, rivolto alla musica brasiliana. Una performance caratterizzata da quel sottile velo di saudade che avvolge e rende unica questa musica tra le musiche del Mondo. Per l'occasione Bollani chiama a raccolta una formazione inedita con i fidati Mirko Guerrini al sax e Nico Gori al clarinetto, il flautista Nicola Stilo e la cantante Barbara Casini, colei che gli ha trasmesso, molti anni fa, l'amore per la bossa e tutto ciò che profuma di Brasile.

Bollani indovina l'approccio scegliendo un profilo essenziale, capace di far risaltare le doti dei solisti. In maniera particolare si lascia apprezzare Nicola Stilo, con quel suo timbro strumentale asciutto, pregno di sofferenza e di profondità espressiva. Applausi sinceri e ringraziamenti di rito. Sembra una conclusione di serata come tante, salvo che poi - a luci accese - il pianista salta di nuovo sul palco, per travolgere il pubblico con un'imitazione di Fred Bongusto. Ancora applausi, misti a sorrisi irrefrenabili. Sipario, stavolta sul serio.


Foto di Giorgio Ricci.
Ulteriori immagini di questo festival sono disponibili nella galleria dedicata al concerto di Enrico Rava e Stefano Bollani

lunedì 18 ottobre 2010

Ondamedia: nuovo album e live



Ondamedia

Presentazione live del nuovo album

“Lungo strade senza volto”





13 novembre 2010 @ Alkatraz, Fiumicino (Roma), via delle Conchiglie 16
Ore 22:30, ingresso 8 euro con consumazione
http://www.alkatraz.it

Gli Ondamedia presenteranno dal vivo il loro nuovo concept album “Lungo strade senza volto” all’Alkatraz di Fiumicino (via delle Conchiglie, 16) il 13 novembre 2010, ore 22:30, ingresso 8 euro con consumazione.

L’album è stato scritto, concepito e arrangiato dagli Ondamedia con Roberto Piccirilli al basso e Simone Empler agli archi e pianoforte. Si tratta di un concept autobiografico sulla perdita di se stessi e sul difficile cammino rappresentato dalla continua ricerca della propria identità, respiro dopo respiro. Registrato da Francesco Gagliardini e Simone Empler al BlueTrip Studio e missato da Mirko Cascio (Daniele Silvestri, Luciano Ligabue, Niccolò Fabi) agli Stemma Records and Studios. Mastering effettuato al Cantoberon Multimedia.


La tracklist:

1.Respiro (intro); 2.Simbolo; 3.Uomini senz’alba; 4.Mentore (parte 1); 5.Come eravamo; 6.Un giorno perfetto; 7.Germi che splendono; 8.Oltre la siepe; 9.Mentore (parte 2); 10.Verso di me; 11.Capoverso; 12.Respiro (epilogo).

Il concept:

RESPIRO intro: È il prologo strumentale. L'arpeggio di chitarra segna un’andatura titubante, le carezze del basso delineano lo stato d'animo intorpidito del protagonista e la sua sensazione reale di aver perduto qualcosa.
SIMBOLO: La batteria apre con una cadenza da esecuzione che irrigidisce l'atmosfera, guidando gli strumenti in un crescendo di emozioni, passando dallo smarrimento a un grido disperato: non essere ricordato così. Chiude un assolo di chitarra rabbioso fino alle lacrime.
UOMINI SENZ'ALBA: Brano di rock puro, ritmica e chitarre menano la danza frenetica. L'incapacità di sfruttare le proprie energie di fronte a un futuro impalpabile. Il brano chiude con gli strumenti a guidare un finale psichedelico testimonianza di un periodo in equilibrio precario.
MENTORE parte 1: Una chitarra acustica rilassante, una ninna nanna, una cantilena, la voce della coscienza rassicura il protagonista.
COME ERAVAMO: Un arpeggio orgoglioso e vibrante dà il via alla ricerca del protagonista. Gli strumenti sono lo sguardo al passato, sostengono il brano nei suoi passaggi temporali esprimendo malinconia e fierezza. Guardare chi eri per sapere chi sei, ritrovare la musica, la vita. Una ballata moderna. Ritmica e chitarre espressive sul testo, con un finale teso e riflessivo.
UN GIORNO PERFETTO: Dopo tanto buio, una piccola luce in un cattivo momento. La dolcezza delle chitarre, la ritmica sorniona, la voglia del protagonista. Gli strumenti aprono il brano lasciandolo comunque in un limbo ovattato, accompagnando un urlo di speranza in una nuova libertà che precipita nel vuoto.
GERMI CHE SPLENDONO: La batteria sospesa scarnisce l'atmosfera. L'arpeggio di chitarra sofferente, dà il la a un brano rock con stacchi acidi dove gli strumenti strazianti e amalgamati, duttili e dinamici, descrivono la lotta del protagonista che sprofondato di colpo combatte e cerca indizi anche nelle impurità, contro tutte le sue esitazioni.
OLTRE LA SIEPE: È un brano strutturato in quattro parti. Introduzione rock massiccia, ritmica e chitarre impastate e contrastanti, un flashback tra gioia e dolore, immagini e ricordi. Gli strumenti trasformano un’atmosfera psichedelica in modo ossessivo. Sdegno, rifiuto, rabbia e il coraggio del protagonista desideroso di affrontare il problema.
MENTORE parte 2: La voce della coscienza ritorna. Un arpeggio acustico e un coro spensierati. Il protagonista ha chiuso il conto con i fantasmi del passato ed è pronto a farsene carico.
VERSO DI ME: Un arpeggio di chitarra luminoso. Una ballata on the road. Il protagonista capisce di aver perso se stesso e di essere in viaggio da molto tempo per ritrovarsi ed affrontare il mondo. Nel finale gli strumenti entrano un passo alla volta in un crescendo di suoni devastanti, creando un’atmosfera imponente per un assolo esplosivo.
CAPOVERSO: L'affascinante arpeggio delle chitarre, la ritmica a disegnare uno scenario leggero, morbido. Una ballata dove la consapevolezza del passato, del presente e dell'incertezza del futuro, non spaventa il protagonista. Un finale dove gli strumenti compatti e deliranti di felicità, delineano una corsa liberatoria.
RESPIRO epilogo: È una coda strumentale. L'arpeggio di chitarra riprende il giro dell'introduzione, ma con un’andatura più sicura di sé. Gli altri strumenti entrano e sostengono questa pacatezza d'animo. Il protagonista ora sa che domani tutto potrebbe accadere di nuovo, e proprio questa piccola certezza lo farà sentire pronto a rimettersi in gioco. Il gong sancisce l'anello di congiunzione tra i passaggi della vita.
Il nuovo cd degli Ondamedia “Lungo strade senza volto” sarà disponibile dal 13 novembre 2010 al prezzo di 7 euro nelle seguenti modalità:
- durante i live degli Ondamedia
- online su www.incidi.net e in formato digitale (mp3) su www.incidi.net
“Lungo strade senza volto” sarà inoltre disponibile su iTunes e Napster
Biografia

Gli Ondamedia nascono da un incontro emotivo-artistico, dalla confluenza di strade diverse in un punto comune, strade che si ritrovano a dialogare sull’unico terreno a loro congeniale: gli Ondamedia confrontano le loro storie e il loro modo di concepire la musica navigando su unica onda che media le loro diversità. Questo è il concetto da cui nasce il nome della band.

Attivi dal 1998, fino al 2004 registrano 4 demo che presentano dal vivo nei migliori club di Roma e dintorni con buoni riscontri di critica e pubblico. Nel 2006 coproducono con la UDU Records il loro primo disco “Niente è come sembra”, che vende circa 600 copie esclusivamente attraverso i live e ottiene recensioni positive. Nel 2008 iniziano a lavorare sul loro secondo disco “Lungo strade senza volto”, che vedrà la luce nella seconda metà del 2010.
Nel 2010 si delinea l’attuale lineup, composta da: Fabrizio Collacchi (voce); Massimiliano De Castro e Alberto Foddai (chitarre); Alberto Maiozzi (batteria); Roberto Tempesta (basso).

Press

Suoni che sanno d’oltreoceano, ma rivisitati con cura in chiave nostrana. Arrangiamenti ruvidi, addolciti da rifiniture precise e azzeccate. Buona miscela tra musiche e testi.
(Federico Genta – La Stampa)

Alternano pezzi dall’atmosfera sofferta a tracce più veloci e graffianti. Rabbia, idee e riff chitarristici tanto viscerali quanto coinvolgenti. Elementi Blues (soprattutto negli splendidi assolo di chitarra) ad elementi Hard Rock.
(Enrico Mainero – RockAction.it)

Una band capace di coniugare passaggi soft fascinosi e fraseggi chitarristici d'estrazione rock ottimamente composti e suonati, quasi stridenti nella loro emozionalità ben evidente. La sintesi fra tradizione rock '70 e suono moderno è ben rappresentata..
(Marco Priulla – Rock In Italia)


Web utilities:
http://www.ondamedia.net/
http://www.facebook.com/pages/ondamedia/30469221228
http://www.myspace.com/ondamedia

info e booking: 333.3837272

domenica 17 ottobre 2010

Programmazione Circolo Degli Artisti 18/24 Ottobre

- MARTEDI' 19
Circolo Degli Artisti & Minimum Fax presentano
SANGUE MISTO Book Party
con
Neri Marcoré - voce recitante e chitarra
Fabio Stassi - chitarra
Maré - violino e voce
Franco Piana - tromba e flicorno
dalle 22:45
ingresso
10 euro con libro
dalle 20:30
ingresso libero
proiezione ROMA - BASILEA

- MERCOLEDI 20
Loose Habit & Circolo Degli Artisti
presentano
WE HAVE BAND
+ Discofunken
+ Love The Unicorn
botteghino
20:30
concerti
21:30
ingresso libero fino alle 22:30 / dopo le 22:30 5 euro

- GIOVEDI' 21
ONE DIMENSIONAL MAN
+ Speedy Peones
porte/botteghino
19:30
concerti
20:15
ingresso
12 euro + 1,80 euro d.p.
dalle 23:00
ingresso
5 euro + 1,50 euro d.p.
ANY GIVEN MONTH

- VENERDI' 22
IMMANUEL CASTO
porte/botteghino
20:30
concerti
21:30
ingresso
10 euro + 1,50 euro d.p.
dalle 23:30
ingresso
6 euro + 1,50 euro d.p.
OMOGENIC - serata GLBT curata da DI GAY PROJECT

- SABATO 23
SCREAMADELICA presenta
CRYSTAL FIGHTERS
+ Too Young To Love
porte/botteghino
20:30
concerti
22:00
ingresso
8 euro + 1,50 euro d.p.
dalle 22:30
ingresso
5 euro + 1,50 euro d.p.
ROCK THE DANCEFLOOR - due sale DJ set in collaborazione con RADIO CITTA' FUTURA

- DOMENICA 24
WI-FI ART meets COLLETTIVA FOTOGRAFICA
Festa D'Apertura THAT'S ALL FOLKS
Radio Fandango in diretta dal Circolo Degli Artisti ospita Sylvie Lewis, Elizabeth Cutler, Honeybird & The Birdies, Cacique De Roma
dalle 19:00
ingresso libero

mercoledì 13 ottobre 2010

One Dimensional Man: al Circolo degli Artisti


GIOVEDI’ 21 OTTOBRE
ONE DIMENSIONAL MAN - You Kill Me Tour 2010
+ Speedy Peones
botteghino 19:30 concerti 20:15 ingresso 12 euro + 1,80 euro d.p. dalle 23:00 ingresso 5 euro + 1,50 euro d.p.

ANY GIVEN MONTH

@ CIRCOLO DEGLI ARTISTI

Via Casilina Vecchia 42 - Roma

06 70305684; info@circoloartisti.it

I One Dimensional Man sono un gruppo musicale veneto (precisamente di Venezia) di matrice indie - noise - post-rock e blues che nasce nel 1996 dall'idea di Pierpaolo Capovilla (voce e basso) e Massimo Sartor (chitarra). Successivamente entrerà a far parte della band Dario Perissutti (batteria) proveniente da varie esperienze come chitarrista nell'area indipendente veneziana. Il nome della band è ispirato all'opera del filosofo Herbert Marcuse L'uomo a una dimensione, in cui viene denunciata la tendenza della società occidentale ad appiattire l'essere umano alla dimensione di individuo-consumatore, privo di sogni e aspirazioni diverse dal possesso di nuovi prodotti della società industriale. Con questo nucleo vedrà la luce nel maggio del 1997 il loro primo disco One Dimensional Man pubblicato dall'etichetta indie pisana Wide Records, 13 brani potenti, rumorosi e frenetici. Il disco un po' a sorpresa viene accolto subito favorevolmente dalla critica di settore. Tra il 1997 e il 1998 la band si esibirà in oltre 100 concerti in Italia e all'estero (Slovenia, Croazia, Repubblica ceca e Slovacchia). Suoneranno tra l'altro come gruppo spalla per molti gruppi importanti quali Blonde Redhead, The Cows, Kepone, Fluxus, Uzeda e più avanti nel 1999 con dEUS e Jon Spencer Blues Explosion. Nel luglio del 1998 Massimo Sartor lascerà la band e verrà sostituito da Giulio Favero, giovane chitarrista dell'area indie padovana e precedentemente batterista dei Geyser (ironia della sorte un batterista ex chitarrista e un chitarrista con un passato da batterista). Proprio con l'arrivo di Giulio la sonorità della band si sposta più verso il blues e il rock degli anni ottanta (Birthday Party, The Cramps, Scratch Acid, Butthole Surfers). Nel gennaio 2000 arriva il secondo disco 1000 Doses of Love, sempre con la Wide Records, che esprime pienamente il cambiamento di rotta del gruppo. 9 brani diversi fra loro ma con un filo conduttore, infatti tutti i pezzi sono legati all'amore e al suo fallimento, si potrebbe definirlo come un concept album. Il tour in questione durerà due anni è li porterà in alcuni casi a suonare ancora con band di grande fama come Therapy?, Demolition Doll Rods, Delta 72, Melvins e nuovamente Jon Spencer Blues Explosion. Nel settembre del 2001 si chiudono nel Red House Recordings di Senigallia per registrare il terzo disco che uscirà nel novembre 2001 col titolo You Kill Me che sancirà il passaggio all'etichetta Gamma Pop. Un disco decisamente più maturo accolto con grande entusiasmo sia dalla critica che dal pubblico e li consacrerà come una delle migliori live band italiane in assoluto. Da qui suoneranno per oltre un centinaio di date in Italia e una dozzina all'estero, parteciperanno al programma televisivo MTV Supersonic eseguendo tre brani live e realizzeranno il loro primo videoclip, You Kill Me (regia di G. Cecinelli / Digital Desk, Roma) che verrà programmato da varie emittenti musicali (MTV, All Music, Rock TV, etc.) e suonano in diversi festival estivi come Radio Sherwood Festival (Padova), Rockaralis (Cagliari), Frequenze Disturbate (Urbino, con Giant Sand), Arezzo Wave, Goa-Boa Festival (Genova) e Tora! Tora!. Nel marzo 2003 faranno il loro primo tour europeo che li porterà a esibirsi a Berlino, Vienna, Lugano, Bruxelles, Amburgo. Dopo 4 anni, 2 dischi e circa 200 concerti Giulio Favero matura la decisione di lasciare la band, una scelta serena senza amarezze e incomprensioni che non incrinerà il rapporto con gli altri membri, tanto che Giulio resterà a collaborare per le registrazioni in studio e in qualità di produttore. Arriverà a sostituirlo Carlo Veneziano(Treviso 1983), giovane chitarrista dell'underground trevigiano col quale nel maggio del 2003 iniziano a comporre nuovo materiale e a suonare dal vivo. Durante un concerto il batterista Dario Perissutti si lussa una spalla e viene sostituito per una dozzina di date da Gianluca Schiavon (già con Santo niente, Moltheni e successivamente Yuppie Flu). Dopo una trentina di concerti tra cui alcune date del Tora! Tora!, Arezzo wave e una data del Rock TV tour (che andrà in onda sulla stessa emittente Rock TV) a gennaio 2004 tornano in studio per realizzare il quarto album tra il Blocco A di Padova e il più noto Red House Recordings Studio di Senigallia. Sarà registrato e missato da Giulio Favero (che come citato continua a restare collaboratore della band) e masterizzato da Giovanni Versari al Nautilus Mastering di Milano. Esce il 21 giugno 2004 coprodotto dalle etichette Ghost Records e Midfinger Records e si intitola Take Me Away. 11 brani che tracciano un nuovo cambiamento nel sound della band, stavolta meno aggressivo, più votato alla melodia, talvolta con qualche spruzzo di garage, ma pur sempre un disco degli One Dimensional Man, fedele alla loro attitudine, che non fa altro che confermare l'enorme qualità della band. In estate tornano dal vivo e partecipano a vari festival, tra gli altri Arezzo wave, Neapolis festival (con Air, David Byrne e Arab Strap), Ghost Day (organizzato dell'etichetta varesina) con ospiti come Zu, Karate ed Ex, alcune date del Tora! Tora! tra cui il Brand new: day a Fiumicino (RM). Nel settembre 2004, Mauro Lovisetto, web-designer-grafico-fotografo trevigiano alla sua prima esperienza come regista realizza il loro secondo videoclip, Tell Me Marie, dirigendolo in uno studio di Padova per poi elaborarne un montaggio ricco di grafiche dinamiche, ambientazioni irreali e velocissime sequenze fotografiche, con una tecnica ed un gusto insolitamente originali. Il video comincia ad essere trasmesso dalle varie emittenti tv musicali da metà ottobre e a fine novembre viene premiato al MEI (Meeeting delle etichette indipendenti) di Faenza (RA) come miglior videoclip indipendente dell'anno. Nello stesso periodo si esibiscono in due negozi FNAC per presentare Take Me Away, con un esclusivo showcase in acustico (per la prima volta) suonando l'attesa Mad at Me, due inediti (In Your Arms e Gloria), ed una funebre Just a Boy completamente riarrangiata. La band continuerà a suonare live per tutto il 2005 suonando tra l'altro in vari festival tra cui Tora! Tora!, Arezzo Wave, Piemonte Music Festival, Frequenze Disturbate (per la seconda volta), Metarock a Pisa e il Marcon Music Festival, e come spalla dei Motörhead a Cagliari. Dopo 8 anni di live e 4 dischi nel settembre 2005 Dario Perissutti lascia il gruppo, lo sostituisce il giovane Francesco Valente, proveniente dall'underground triestino. Il debutto di Franz avviene il 24 settembre a Basigliano (GO), per poi continuare il rodaggio in un breve tour in Germania (25, 26, 27 ottobre) ad Amburgo, Berlino e Francoforte. Nel novembre 2005 Pierpaolo Capovilla e Francesco Valente insieme all'ex chitarrista Giulio Favero e al cantante-chitarrista dei Super Elastic Bubble Plastic Gionata Mirai, danno vita al progetto Il Teatro degli Orrori, il cui nome si richiama al Teatro delle Crudeltà di artodiana memoria. La band suona qualche data nel 2006 e comincia un vero e proprio tour nel 2007. Il 6 aprile 2007 pubblicano il loro primo disco, Dell'impero delle tenebre prodotto dall'etichetta La tempesta/Venus. Dopo aver tralasciato per qualche anno il progetto in favore de il Teatro degli orrori nel Mese di Giugno del 2010 a distanza di 6 anni dall'ultimo disco la band annuncia tramite la propria pagina ufficiale su Myspace che tornerà a esibirsi in un nuovo tour nel mese di Ottobre, riproponendo "You Kill Me", uno dei loro dischi più significativi e alcuni brani inediti, con una nuova formazione che prevede oltre a Pierpaolo Capovilla il rientro di Giulio Favero alla chitarra e l'ingresso di Luca Bottigliero dei Mesmerico alla batteria. Aprono gli Speedy Peones.

http://www.onedimensionalman.it/

http://www.myspace.com/onedimensionalman

http://www.myspace.com/speedypeones

http://www.myspace.com/anygivenmondayroma

http://www.circoloartisti.it

http://www.myspace.com/circolodegliartisti

mercoledì 7 luglio 2010

Intervista a Roberto Gatto

Venti minuti con la storia del jazz italiano: intervista a Roberto Gatto
Pubblicato: July 6, 2010


di Roberto Paviglianiti [Posta un commento] Commenta [Stampa] [Invia questo articolo per email] [Iscriviti]

Quando Roberto Gatto mette giù la cornetta il nostro registratore segna venti minuti e zero secondi, spaccati. Un lasso di tempo sufficiente per saperne di più sulla sua ultima uscita discografica Remembering Shelly, un omaggio al batterista Shelly Manne; fare quattro passi attraverso una storia importante, quella del jazz italiano degli ultimi trent'anni; dare un'occhiata al presente e curiosare nel cantiere di qualche progetto futuro. Insomma, venti minuti passati dentro la musica.

All About Jazz Italia: Un batterista che omaggia un altro batterista rileggendone alcune pagine importanti. Cosa ti ha portato a dar vita ad un progetto come Remembering Shelly e in che modo hai cercato di riproporre la musica di Manne in maniera originale?

Roberto Gatto: È un omaggio alla musica del quintetto di Shelly Manne, non direttamente a Shelly Manne. È un modo per riproporre un repertorio che nessuno prima di me aveva mai riproposto. Quello di una band che era in attività tra il 1959 e il 1961 e che proponeva brani originali scritti dai vari componenti del gruppo. L'idea era quella di suonare una serata di standard senza suonare degli standard (il disco è stato registrato dal vivo all'Alexanderplatz di Roma, N.d.R.). Non so se sia originale o meno, ma un musicista di jazz contemporaneo, visto che suona questa musica, ha il dovere di ricordare e riproporre repertori dei grandi della musica del jazz. L'ho fatto con Miles, ora con Manne e lo continuerò a fare. È come dire: «che originalità c'è nel riproporre la Quinta di Shostakovich dopo 75 anni che è morto?». Eppure continuano a suonarla. Il jazz è come la musica classica; il jazz del periodo di Manne lo si può continuare a suonare ad libitum, altrimenti se si dimentica quel tipo di provenienza si perde il filo del discorso.

AAJ: Qual è il punto di contatto tra te e Shelly Manne dal punto di vista prettamente batteristico? C'è qualcosa che vi rende simili?

R.G.: Trovo di sì, e questo l'ho scoperto strada facendo. Lui era un arrangiatore e compositore, un musicista che spaziava da Ornette Coleman a Bill Evans, alle grandi orchestre. Era molto curioso e suonava in molti contesti: era un musicista. Credo di essere un musicista prima che un batterista, e lui era uno dei batteristi più musicisti del suo periodo e ha lasciato molte documentazioni di questa versatilità, attraverso dischi molto diversi: dal trio di Sonny Rollins alla musica d'avanguardia, al duo con André Previn fino a tutto il jazz californiano. È la versatilità la cosa che mi accomuna a lui, sicuramente.

AAJ: Hai dovuto trascrivere l'intero repertorio in mancanza di spartiti. Quanto hai impiegato per gettare le basi per questo progetto?

R.G.: Circa un mese e mezzo, con molta calma, nei ritagli di tempo. Quel quintetto suonava una musica organizzata e strutturata, con l'idea di una piccola big-band, come molti dei gruppi di quel periodo. Ho addirittura chiesto agli amici della moglie di Shelly Manne se esistevano partiture del quintetto, invece mi hanno detto che non c'era niente, quindi evidentemente loro provavano e registravano così, abbastanza all'impronta. Erano tutti dei super professionisti, assimilavano presto il repertorio e suonavano a memoria. Siccome da nessuna parte si poteva rintracciare qualcosa di scritto, mi sono dovuto mettere lì a trascrivere; un lavoro anche divertente tutto sommato.

AAJ: In Remembering Shelly i musicisti che hai scelto hanno espresso al meglio le proprie potenzialità. In che modo un leader riesce a coinvolgere e trarre il massimo dai componenti di una band?

R.G.: Facendoli appassionare. Essendo tutti giovani, per loro è stata una scoperta. Sembra incredibile, ma alcuni non avevano mai sentito nominare i musicisti di quella band. Per esempio Max Ionata non conosceva Richie Kamuca, che è stato uno dei migliori saxofonisti della West Coast, dicendo: «come è possibile che suono il tenore, studio Rollins e Coltrane e non conosco un super saxofonista come questo?». Li ho messi di fronte a una musica che non conoscevano, si sono appassionati, perché è un bellissimo repertorio, suonato con grande swing, grande freschezza. È una musica molto divertente, quando poi l'abbiamo tradotta dalla carta alla dimensione suonata ci siamo accorti che ancora adesso funziona benissimo. I ragazzi si sono poi documentati, sono andati a vedere tutte le cose che ci sono su internet, dove si possono trovare filmati di pezzi mai registrati. Ho chiesto loro di realizzare un tributo il più possibile filologico, perché né si può prendere quel repertorio e cercare di riarrangiarlo (è una cosa folle dal momento che è arrangiato così bene), né di cercare di modernizzarlo in qualche modo. Bisogna suonare calandosi nell'atmosfera di quel periodo, ed era proprio quello che volevo. Non ho detto loro di fare una cover, ma di suonare in stile rimanendo se stessi. Che poi è quello che è uscito fuori. Il suono del disco è un suono riproposto dal vivo, molto asciutto, di una dimensione che mi riportava un po' a quegli anni. Voleva essere un tributo scientifico.

“Non mi piace il buonismo nella musica, eccedere in cose sdolcinate e ruffiane, voglio che ci siano sempre grande rigore e rispetto”

AAJ: Di recente, oltre alla pubblicazione di Remembering Shelly sei stato protagonista di altre uscite discografiche. Pensiamo al primo disco ufficiale dal Trio di Roma, con Danilo Rea e Enzo Pietropaoli. Che ricordo hai del jazz italiano dei vostri esordi?

R.G.: C'era molto poco jazz in quel periodo. C'erano pochi punti di riferimento, e immagino i giovani d'oggi quanto possano essere fortunati in questo senso, hanno tutto, qualsiasi supporto. A quel tempo i pochi musicisti che c'erano per noi erano fondamentali, per imparare e trarre ispirazione. Scena che non ha nulla a che vedere con quella di adesso. A Roma, per esempio, c'era un pianista, un contrabbassista, forse due batteristi, un trombettista: fine del jazz a Roma. In Italia c'era qualcuno a Milano e Bologna; era una scena povera, ma c'era un grandissimo entusiasmo. Poi c'è stato un periodo di crescita spaventosa, fino ai giorni d'oggi. Il periodo degli anni Settanta è stato il più difficile, perché non esistevano strutture. Umbria Jazz, se non sbaglio, iniziò nel '73, ed è stato il primo festival popolare, di massa, internazionale. Prima forse c'era solo il Festival Jazz di Sanremo, ma era un posto dove pochi, una piccola élite aveva la possibilità di andare. Quindi la nostra generazione ha dato la partenza a tutti. È stata una generazione importante la mia, di Danilo Rea di Pieranunzi, di Massimo Urbani. In quella attuale ci sono musicisti giovani che suonano già in maniera sorprendente.

AAJ: C'è qualcuno che ha catturato la tua attenzione?

R.G.: Ce ne sono diversi. In Italia c'è una scena di musicisti molto giovani, ne cito uno che ho avuto recentemente con me nei I-Jazz Ensemble: Alessandro Lanzoni, un pianista di diciotto anni che ha un talento straordinario, che di solito suona con un altro giovane interessante, il contrabbasista Gabriele Evangelista, toscano come lui. Metterei anche, seppur meno giovani, Max Ionata e Giovanni Falzone. All'estero c'è Brad Mehldau, che continua a essere tra i miei pianisti preferiti, Dave Douglas, ma anche Donny McCaslin e Chris Potter: non sono più giovanissimi, ma di iper-giovani c'è un fantastico chitarrista di New York che si chiama Johnathan Kreisberg, molto forte, e anche Mike Moreno, Aaron Parks e altri.

AAJ: Sei consapevole di essere una delle icone del jazz italiano di sempre?

R.G.: Gli anni iniziano a farmi capire questo fatto, anche se io sono assolutamente sempre a lavoro e in attività più di sempre, con l'entusiasmo anche maggiore di quando ero giovane. Però andando indietro mi rendo conto di aver fatto tanto. Non so se sono un'icona, ma sicuramente un punto di riferimento, credo e spero, importante per i più giovani.

AAJ: Un consiglio da dare a un giovane batterista?

R.G.: Questa musica si fa al meglio avendo grande passione, non esistono altre cose. Ho sempre detto che la passione è quello che ti fa fare un lungo viaggio per andare a sentire un concerto, cosa che io e altri abbiamo fatto, spendere quei pochi soldi che uno ha quando si è giovani per comprare dei dischi. Chiedendo consiglio ai grandi musicisti ed essendo sempre dentro alla musica, assorbendo tutto quello che c'è intorno al jazz, e c'è veramente tanto. È una musica che va studiata, non si vive solo il momento del concerto, è quanto uno gli dedica a livello di studio e di ricerca continua. Ascoltare e scoprire quelli che ci sono stati prima di noi, scoprire il jazz di una volta e tutti gli anelli di congiunzione tra un genere e un altro, i maestri che hanno fatto questa musica grande. Bisogna sempre farsi scattare una ottima dose di entusiasmo, perché senza di quello è molto difficile.

AAJ: Parliamo anche di The Music Next Door. Dal punto di vista compositivo, in un'altra intervista hai dichiarato: «a me piace che dai miei dischi esca la musica, il suono che cercavo mentre componevo». Descrivici il tipo di suono che è uscito da questo lavoro.

R.G.: È un suono di composizioni mie abbastanza intimista, tutto sommato. Mi piace scrivere avendo rispetto per la tradizione e per le grandi melodie, sono un musicista "romantico" e di conseguenza scrivo in maniera diretta verso la melodia. Allo stesso tempo mi piace suonare completamente free, senza forma, un po' come sono stato abituato a fare quando ho iniziato negli anni Settanta con qualche esponente del free jazz. Amo entrambe le strade, mentre non sopporto il buonismo nella musica, eccedere in cose sdolcinate e ruffiane. Ci deve essere sempre un grande rigore e un grande rispetto. In genere scrivo molto piu' di quanto finisco per registrare; sono abbastanza esigente quando scrivo e ho imparato negli anni a farlo sicuramente meglio di un tempo. Quindi quello che esce fuori dai miei dischi, in particolare da The Music Next Door, è un po' un viaggio. Quando uno inizia ad avere 50 anni ha assorbito tanta musica e quindi finisco per riproporre tutto quello che vorrei ascoltare andando a un concerto o ascoltando un disco. È un viaggio attraverso tutto, attraverso la storia del jazz, attraverso la canzone, il pop, il rock progressive, attraverso i cantanti italiani, i compositori di musica da film: c'è tutto questo nella mia sfera musicale, per cui arrivato a un certo punto non devo necessariamente preoccuparmi più di tanto, perché se anche non dovessi avere un'ispirazione saprei dove andare a pescare, come ho fatto in The Music Next Door, dove ci sono cose mie e cose di repertori molto diversi. Questa è una strada che paga sempre e che percorrerò anche nei prossimi dischi.

AAJ: Proviamo dunque a ipotizzare il futuro. Qual è l'idea che vorresti portare a compimento, da qui a dieci anni?

R.G.: Ho diversi progetti. Negli ultimi tre anni ho fatto tanto. Quindi continuerò a lavorate con l'ottetto I-Jazz Ensemble, con il quale realizzeremo un disco, e poi mi piacerebbe secondo capitolo del disco che ho fatto per L'Espresso sul rock progressive, ma con un'etichetta e non in edicola. C'è tanta musica bellissima che ho dovuto lasciare da parte, penso sia il caso di fare un volume 2. Il prog mi sta molto a cuore. Per il momento mi sembra abbastanza, cerco sempre di mettere a frutto qualche idea quando ne vale la pena e quando sono sicuro di ciò che sto facendo.

AAJ: Da qui ai prossimi dieci minuti?

R.G.: Da qui a dieci minuti? (ride, N.d.R.). Non saprei, comunque io lavoro, ascolto musica e scrivo in continuazione. Stavo per uscire a fare dei giri, ma poi alla fine ritorno a casa, sto sempre con il computer acceso a guardare filmati storici, ascoltare musica: sono sempre dentro la musica.


Foto di Claudio Casanova


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