mercoledì 22 dicembre 2010

isolati: interviste su l'isola

Ultimavera: Racconto d'autunno

Zibba: Uno vero

Ugo Mazzei: Cantautore per vocazione
Paolo Tocco: Emozioni in musica
Casa del Vento: Quando fischia la sirena

Cupa ironia: intervista a Caterina Palazzi


Non si incontra tutti i giorni una musicista dalle idee chiare come Caterina Palazzi. Alla guida di un quartetto legato da amicizia e stima reciproca - completato da Danielle Di Majo (alto sax), Giacomo Ancillotti (chitarra) e Maurizio Chiavaro (batteria) - e forte del convincente album d'esordio Sudoku Killer, la giovane contrabbassista ci racconta come nascono le sue composizioni: scure come la trama di una pellicola noir e intriganti come un giochino di logica matematica.

All About Jazz Italia: Sudoku Killer è il tuo primo album come leader. Il titolo racchiude un significato particolare?

Caterina Palazzi: Ha un duplice significato. L'idea di dare al disco questo titolo scaturisce da due motivi principali. Il primo è che siccome sono una grande appassionata di matematica e di giochetti di logica - il sudoku killer è una variante del normale gioco del sudoku - volevo che il mio lavoro musicale rispecchiasse questa componente caratteriale che è abbastanza presente. Il secondo motivo è che nel CD c'è un intreccio di storie che parlano di cose diverse, ma che hanno un filo conduttore, un po' come il sudoku che è un intreccio di numeri apparantemente scollegati tra loro, ma che hanno un filo logico che li accomuna.

AAJ: In effetti le tue composizioni hanno uno sviluppo di tipo cinematografico, dietro questo modo di scrivere c'è una passione specifica?

C.P.: Sì, assolutamente. Sia per la letteratura che per il cinema. Sono un'appassionata, vedo molti film e leggo molti libri, che poi influenzano la mia scrittura musicale. Per esempio il brano "La lettera scarlatta" è ispirato all'omonimo libro, mentre, parlando di cinema, "La vedova nera" è ispirato a un film di Truffaut che si chiama "La sposa in nero," ma in generale ogni pezzo descrive delle storie e molte persone mi dicono che quando li ascoltano immaginano una sorta di film. Di solito, sul palco, prima di eseguire un pezzo ne spiego la storia, e le persone poi mi riferiscono le loro sensazioni a riguardo. C'è un forte richiamo cinematografico nella musica che faccio, quindi tendo sempre a dire due parole per spiegare il pezzo per fare in modo che il pubblico si immagini lo svolgere della trama, anche se non è davanti a uno schermo.

AAJ: L'idea di comporre una colonna sonora potrebbe piacerti?

C.P.: Perché no. Sarebbe interessante, non è la mia massima aspirazione, ma sarebbe sicuramente bello.

AAJ: Anche le ambientazioni scure che utilizzi rispecchiano il tuo modo di essere?

C.P.: Sicuramtne sì, la sonorità del CD è cupa, c'è una prevalenza di pezzi minori, è una cosa che si può notare. Però è pure vero che è cupo, che è noir, come del resto è il mio carattere, ma c'è anche parecchia ironia. Noir sì, ma con un pizzico di ironia.

AAJ: In Sudoku Killer si avverte netta una importante coesione di gruppo.

“In realtà il contrabbasso non è che proprio l'ho scelto. A un certo punto è stato proprio un'esigenza.”

C.P.: Noi siamo proprio un gruppo. Certo, i pezzi sono miei, sono io che metto più bocca a livello artistico, però loro sono il mio gruppo, non potrei suonare questi pezzi con altre persone. Poi ovviameente nella vita non si sa mai come vanno le cose, però mi piace il fatto che siamo cresciuti insieme, che abbiamo montato insieme il repertorio, che giriamo l'Italia insieme per presentare il disco.

AAJ: Il vostro è un rapporto che va oltre la semplice stima tra musicisti?

C.P.: Sì, a mio avviso per suonare bene insieme non ci si può non stimare tra persone. Soprattutto se passi così tanto tempo insieme. Noi suoniamo molto, da quando è uscito il disco abbiamo fatto circa cento date dal vivo, per cui se non vai d'accordo umanamente diventa stessante. Invece noi siamo anche amici.

AAJ: Qualcuno definisce la tua musica "inquietante". Che ne pensi?

C.P.: Sentire un concerto di tutti pezzi miei può, in un certo senso, turbare. Perché l'atmosfera è molto cupa. Però mi piace il fatto che risulti inquietante, lo ritengo un complimento, mi piace. Molto meglio di noioso. Qualunque sensazione desti la musica, l'importante è che comunichi qualcosa.

AAJ: Un album che si distacca parecchio dalle peculiarità di un tipico suono jazzistico.

C.P.: Sono partita suonando la chitarra in gruppi punk rock. Ho un passato tutt'altro che jazz. Al jazz mi sono appassionata verso i venti anni; ho studiato il jazz tradizionale, ho avuto il mio periodo di fissa per quel genere, invece poi - quando ho cominciato a scrivere e deciso di avere un gruppo mio che facesse pezzi miei - sono tornate le influenze del passato. Quindi oltre al jazz c'è molto rock in quello che faccio, musica d'autore, musica elettronica, blues. Ascolto la musica in generale, non ascolto solo jazz e credo che poi questo si senta. Le influenze sono molteplici.

AAJ: Perché hai poi scelto di suonare il contrabbasso?

C.P.: In realtà il contrabbasso non è che proprio l'ho scelto. A un certo punto è stato proprio un'esigenza. Ho suonato la chitarra per otto anni, fin da piccola dicevo ai miei genitori che volevo diventare una musicista, ma sentivo che nel corso degli anni la chitarra non era il mio strumento. Quando ho toccato per la prima volta il contrabbasso ho capito che era quello che dovevo suonare. È stato una sorta di incontro casuale che si è rivelato quello giusto per me. Il fatto che poi sia così grande è un po' come andare a suonare in due, è come un essere umano che ti porti dietro, la statura è quella. Mi fa sentire meglio l'idea di avere uno strumento con cui dialogare.

AAJ: Si tratta dunque di un'esigenza fisica.

C.P.: Sì, mi ci appoggio proprio sopra. Il contrabbasso è bello perché è una sorta di prolungamento di te stesso, mentre la chitarra e il pianoforte - per esempio - sono più staccati. Ognuno sceglie il suo strumento a seconda di quello che prova toccandolo, per me è stato amore a prima vista.

AAJ: Non ci sono molte contrabbassiste, ti consideri un eccezione?

C.P.: Di sicuro non siamo in tante, anche perché la cosa veramente dura, oltre al fatto che all'inizio per suonarlo ti sanguinano le dita, è che si tratta di uno strumento faticoso, è difficile anche portarselo dietro, nel trasporto. Me lo porto in giro tutti i giorni, per le scale, in macchina, e ogni volta che lo faccio penso: "mamma mia, quanto mi piace questo strumento!" altrimenti suonerei il basso elettrico. Quindi è un sacrificio, ci vuole molta forza di volontà, anche se poi ti ripaga di tutto.

AAJ: Sei una musicista ancora molto giovane, immagino che avrai molti sogni da realizzare e progetti da portare avanti.

C.P.: Continuare così è già un sogno. L'idea di suonare la mia musica in giro per l'Italia e magari anche un giorno fuori dall'Italia e poter vivere così, non credo di poter chiedere tanto altro. Sono molto contenta di come è andato il primo disco, ho già delle idee per il secondo. Il sogno è quello di continuare e di evolvermi.

AAJ: Qualche anticipazione?

C.P.: È presto per parlarne. Sono contenta di come sta andando il primo album, che è stato ristampato due volte. Nei pezzi nuovi sto prendendo una direzione più sperimentale. Ho fiducia che il secondo mi piacerà più del primo.

sabato 18 dicembre 2010

Girolamo De Simone: Ai piedi del monte

Girolamo De Simone: Ai piedi del monte # KonSequenz/Hanagoori Music, 2010

Girolamo De Simone (pf, spinetta, organo)


Girolamo De Simone oltre ad essere un operatore culturale, scrittore e direttore artistico è anche, e soprattutto, un compositore dedito da molti anni alla ricerca di nuovi linguaggi espressivi e alla valorizzazione di repertori inediti. “Ai piedi del monte” non tradisce le peculiarità del pianista partenopeo e raccoglie, in poco più di mezz’ora, una scaletta di nove brani che traggono ispirazione dalle opere di Vincenzo Romaniello e Gaetano Donizetti, e da luoghi come il Convento della Verna e, in modo particolare, il monte Somma al ridosso del Vesuvio. Un album dal quale emerge una discrezione esecutiva che si sviluppa su tenui linee melodiche, a tratti solo accennate, capaci di spaziare dalle ampie pagine di elegante classicità ai guizzi più decisi di traditional come il Canto dell’Arco, eseguito alla spinetta, fino ai momenti dal forte impatto religioso e devozionale come Inno alla Vergine e La Verna, che racchiude una delicata improvvisazione organistica.

Fabulae contaminatae / Tristezza dell’anima / Ave / Ultima prece / Tramonto / Il tramonto di Donizetti / Canto dell’arco / Inno alla Vergine / La Verna

live 2010

Francesco Diodati "Neko"

John Abercrombie Organ Trio

Festival dei due laghi

Ravenna Jazz 2010

Dave Douglas & Keystone

Francesco Bearzatti Tinissima Quartet

giovedì 21 ottobre 2010

Ravenna Jazz 2010: il live report



L'edizione 2010 del Ravenna Jazz - la trentasettesima per gli almanacchi - si è svolta con la formula che ha caratterizzato gli appuntamenti degli anni precedenti: doppio concerto per tre sere consecutive, nel mese di ottobre. Un momento della stagione dove l'appassionato di jazz ha archiviato le emozioni dei festival estivi e mette mano all'agenda per scegliere gli eventi di maggiore interesse. Ravenna dunque - città ospitale e affascinante -, a prescindere, è tappa obbligata. Perché la kermesse presenta sempre un cartellone dove si possono trovare spunti di interesse, e perché i concerti si tengono al Teatro Alighieri, una location di bellezza suggestiva dove - e non è roba da poco - si può godere di un'acustica di buon livello.

Tre sere dicevamo. La prima dedicata alla figura di Django Reinhardt, nel centenario dalla sua nascita (23 gennaio 1910), e due che hanno visto protagonista Stefano Bollani e le sue diverse declinazioni artistiche. Ma cosa hanno in comune il geniale chitarrista e il pianista italiano? Probabilmente, il nomadismo. Il primo era nomade per natura, aveva l'anima ambulante, era un irregolare. Come il secondo del resto, che è nomade nell'intenzione: suona da solo, in duo, con l'orchestra; ora è carioca, poi jazz standard, o anche pop all'occorrenza. Ma andiamo con ordine:

8 ottobre: About Django


Ravenna, esterno notte. Sono solo le 20, ma si ha la sensazione che nulla potrà più accadere. Strade deserte, insegne spente, tra i vicoli è caccia all'ultima piadineria aperta, per una cena fugace. Invece, qualcosa accade. Sul palco del Teatro Alighieri salgono cinque figure dissimili. Sono i Manomanouche, band devota alle sonorità di Reinhardt composta da due chitarre, sax, contrabbasso e fisarmonica. Spetta a loro aprire il festival, e lo fanno senza lasciare un segno di grande incisività, anche se nel proprio set vanno rintracciati diversi motivi di interesse. A cominciare dalle doti tecniche dei due chitarristi, Nunzio Barbieri e Luca Enipeo, capaci di elevarsi in discorsi solitari intensi e di precisissima profondità espressiva, ma anche di accompagnare gli slanci del fisarmonicista Massimo Pitzianti e di Diego Borotti al sax, ai quali va riconosciuta una buona versatilità. Un'ora di concerto sviluppata su tempi medio-lenti, dove l'anima di Django è stata omaggiata con un pizzico di nostalgia e senza grandi impennate di esuberanza.

Di tutt'altra andatura il secondo concerto in programma. Sul palco si presenta il Trio Rosenberg: tre cugini olandesi autodidatti, frizzanti, simpatici a pelle. Si mettono in tasca i consensi del pubblico presente - fino a quel momento vagamente assopito - con una versione tiratissima di "What Kind of Friend," che vede Stochelo Rosenberg sciorinare una tecnica chitarristica incendiaria. Velocissimo, capace di un sound efficace e coinvolgente strappa applausi sinceri. Due gli ospiti invitati a prender parte alla serata: il fisarmonicista Marcel Azzola e lo strepitoso violinista rumeno Florin Niculescu. Il primo attenua gli slanci dei cugini indiavolati con una dose massiccia di classe ed esperienza; il secondo ruba letteralmente la scena al resto della band. Il suo modo di suonare il violino è di una bellezza clamorosa: traccia melodie angolari e di notevole attrattiva. Sul finire dell'esibizione si ritrovano tutti e in cinque sul palco, ed è difficile tenere gli occhi fermi su un unico particolare e cogliere tutte le sfumature. Ancora applausi.

Non c'è stato il tutto esaurito in questa prima serata, ma i presenti si sono portati a casa una buona dose di sensazioni positive e uno spaccato interessante sul mondo del gipsy jazz, inquadrato da angolazioni diverse che si sono completate a vicenda.

9 ottobre: Bollani Party 1

Il tutto esaurito era prevedibile per la serata di sabato che ha visto protagonista assoluto Stefano Bollani, prima in duo con Enrico Rava e poi con il Danish Trio, completato da Jesper Bodilsen al contrabbasso e Morten Lund alla batteria. A che punto è la love story tra Rava e Bollani? Sul palco del Teatro Alighieri si è visto un duo che sta attraversando un momento di quieta routine, nel quale si continua a seguire la medesima forma espressiva, fatta di una frammentazione e ricomposizione di standard con in mezzo una serie di intuizioni - soprattutto da parte del pianista - che dilatano e cambiano un discorso altrimenti, dai più, già conosciuto. Il tutto cadenzato da gag e situazioni esilaranti che prendono vita da accadimenti imprevisti: lo scoppio di una luce sul palco, un microfono che si ribalta. Bollani - abbigliamento pop, jeans strappati e maglietta sgualcita - indica la strada da percorrere con il suo consueto approccio multivisionario; contorcendosi sullo strumento come un animale in cerca del pieno godimento. Rava rimane in scia senza tentare mai il sorpasso. Nel complesso li abbiamo visti più ispirati in altre occasioni, anche se il loro set rimane di elevata caratura.

Con il Danish Trio si cambia registro. Bollani sembra più voglioso di creare musica e interloquire con i due danesi. Ne viene fuori un concerto tirato ed entusiasmante. I tre producono musica colorata, distante dalle atmosfere chiaroscurali e pensose dell'ultimo Stone in the Water targato ECM. Bodilsen e Lund tradiscono le loro radici nordiche producendo una spinta ritmica di matrice mediterranea e dall'entusiasmo sudamericano. D'altra parte lo stesso Bollani ha di recente dichiarato di trovarsi in un periodo «vistosamente brasiliano», e forse, inconsapevolmente, questo spinge anche chi gli suona affianco ad usare tinte forti, senza indugi. Un paio di soli di Lund d'accecante bellezza ricevono applausi a scena aperta e restano impressi nei ricordi un concerto senza smagliature.

Uscendo dal teatro stavolta troviamo una Ravenna in festa, è la "Notte d'oro": negozi aperti e musica ovunque, incluso il concerto di un Samuele Bersani sempre in buona vena.

10 ottobre: Bollani Party 2

La rassegna ravennate si risolve con la seconda serata di carta bianca a Stefano Bollani. È la volta dell'esibizione in solo. E come di consueto il pianista non si risparmia. Dedica l'intera performance a «un compositore italiano contemporaneo, che sarei io». Scorrono dunque in sequenza le varie "Elena e il suo violino," "Il barbone di Siviglia," fino alla conclusiva "Buzzillare" richiesta dal pubblico. Temi fatti a coriandoli e rincollati grazie a una capacità unica di andare a pescare in una libreria musicale ampissima, senza il minimo indugio, senza mai un appiattimento di stile, senza cercare il passaggio scontato o la soluzione troppo comoda. Bollani ama rendersi la strada contorta, alla ricerca di una conclusione imprevista e soddisfacente. Le immancabili gag e un'ellissi improvvisativa ispirata rendono il suo percorso solitario di estremo interesse.

Come interessante si è rivelato l'ultimo concerto in programma, unica produzione originale proposta dal festival denominata Bollani e Convidados, rivolto alla musica brasiliana. Una performance caratterizzata da quel sottile velo di saudade che avvolge e rende unica questa musica tra le musiche del Mondo. Per l'occasione Bollani chiama a raccolta una formazione inedita con i fidati Mirko Guerrini al sax e Nico Gori al clarinetto, il flautista Nicola Stilo e la cantante Barbara Casini, colei che gli ha trasmesso, molti anni fa, l'amore per la bossa e tutto ciò che profuma di Brasile.

Bollani indovina l'approccio scegliendo un profilo essenziale, capace di far risaltare le doti dei solisti. In maniera particolare si lascia apprezzare Nicola Stilo, con quel suo timbro strumentale asciutto, pregno di sofferenza e di profondità espressiva. Applausi sinceri e ringraziamenti di rito. Sembra una conclusione di serata come tante, salvo che poi - a luci accese - il pianista salta di nuovo sul palco, per travolgere il pubblico con un'imitazione di Fred Bongusto. Ancora applausi, misti a sorrisi irrefrenabili. Sipario, stavolta sul serio.


Foto di Giorgio Ricci.
Ulteriori immagini di questo festival sono disponibili nella galleria dedicata al concerto di Enrico Rava e Stefano Bollani

lunedì 18 ottobre 2010

Ondamedia: nuovo album e live



Ondamedia

Presentazione live del nuovo album

“Lungo strade senza volto”





13 novembre 2010 @ Alkatraz, Fiumicino (Roma), via delle Conchiglie 16
Ore 22:30, ingresso 8 euro con consumazione
http://www.alkatraz.it

Gli Ondamedia presenteranno dal vivo il loro nuovo concept album “Lungo strade senza volto” all’Alkatraz di Fiumicino (via delle Conchiglie, 16) il 13 novembre 2010, ore 22:30, ingresso 8 euro con consumazione.

L’album è stato scritto, concepito e arrangiato dagli Ondamedia con Roberto Piccirilli al basso e Simone Empler agli archi e pianoforte. Si tratta di un concept autobiografico sulla perdita di se stessi e sul difficile cammino rappresentato dalla continua ricerca della propria identità, respiro dopo respiro. Registrato da Francesco Gagliardini e Simone Empler al BlueTrip Studio e missato da Mirko Cascio (Daniele Silvestri, Luciano Ligabue, Niccolò Fabi) agli Stemma Records and Studios. Mastering effettuato al Cantoberon Multimedia.


La tracklist:

1.Respiro (intro); 2.Simbolo; 3.Uomini senz’alba; 4.Mentore (parte 1); 5.Come eravamo; 6.Un giorno perfetto; 7.Germi che splendono; 8.Oltre la siepe; 9.Mentore (parte 2); 10.Verso di me; 11.Capoverso; 12.Respiro (epilogo).

Il concept:

RESPIRO intro: È il prologo strumentale. L'arpeggio di chitarra segna un’andatura titubante, le carezze del basso delineano lo stato d'animo intorpidito del protagonista e la sua sensazione reale di aver perduto qualcosa.
SIMBOLO: La batteria apre con una cadenza da esecuzione che irrigidisce l'atmosfera, guidando gli strumenti in un crescendo di emozioni, passando dallo smarrimento a un grido disperato: non essere ricordato così. Chiude un assolo di chitarra rabbioso fino alle lacrime.
UOMINI SENZ'ALBA: Brano di rock puro, ritmica e chitarre menano la danza frenetica. L'incapacità di sfruttare le proprie energie di fronte a un futuro impalpabile. Il brano chiude con gli strumenti a guidare un finale psichedelico testimonianza di un periodo in equilibrio precario.
MENTORE parte 1: Una chitarra acustica rilassante, una ninna nanna, una cantilena, la voce della coscienza rassicura il protagonista.
COME ERAVAMO: Un arpeggio orgoglioso e vibrante dà il via alla ricerca del protagonista. Gli strumenti sono lo sguardo al passato, sostengono il brano nei suoi passaggi temporali esprimendo malinconia e fierezza. Guardare chi eri per sapere chi sei, ritrovare la musica, la vita. Una ballata moderna. Ritmica e chitarre espressive sul testo, con un finale teso e riflessivo.
UN GIORNO PERFETTO: Dopo tanto buio, una piccola luce in un cattivo momento. La dolcezza delle chitarre, la ritmica sorniona, la voglia del protagonista. Gli strumenti aprono il brano lasciandolo comunque in un limbo ovattato, accompagnando un urlo di speranza in una nuova libertà che precipita nel vuoto.
GERMI CHE SPLENDONO: La batteria sospesa scarnisce l'atmosfera. L'arpeggio di chitarra sofferente, dà il la a un brano rock con stacchi acidi dove gli strumenti strazianti e amalgamati, duttili e dinamici, descrivono la lotta del protagonista che sprofondato di colpo combatte e cerca indizi anche nelle impurità, contro tutte le sue esitazioni.
OLTRE LA SIEPE: È un brano strutturato in quattro parti. Introduzione rock massiccia, ritmica e chitarre impastate e contrastanti, un flashback tra gioia e dolore, immagini e ricordi. Gli strumenti trasformano un’atmosfera psichedelica in modo ossessivo. Sdegno, rifiuto, rabbia e il coraggio del protagonista desideroso di affrontare il problema.
MENTORE parte 2: La voce della coscienza ritorna. Un arpeggio acustico e un coro spensierati. Il protagonista ha chiuso il conto con i fantasmi del passato ed è pronto a farsene carico.
VERSO DI ME: Un arpeggio di chitarra luminoso. Una ballata on the road. Il protagonista capisce di aver perso se stesso e di essere in viaggio da molto tempo per ritrovarsi ed affrontare il mondo. Nel finale gli strumenti entrano un passo alla volta in un crescendo di suoni devastanti, creando un’atmosfera imponente per un assolo esplosivo.
CAPOVERSO: L'affascinante arpeggio delle chitarre, la ritmica a disegnare uno scenario leggero, morbido. Una ballata dove la consapevolezza del passato, del presente e dell'incertezza del futuro, non spaventa il protagonista. Un finale dove gli strumenti compatti e deliranti di felicità, delineano una corsa liberatoria.
RESPIRO epilogo: È una coda strumentale. L'arpeggio di chitarra riprende il giro dell'introduzione, ma con un’andatura più sicura di sé. Gli altri strumenti entrano e sostengono questa pacatezza d'animo. Il protagonista ora sa che domani tutto potrebbe accadere di nuovo, e proprio questa piccola certezza lo farà sentire pronto a rimettersi in gioco. Il gong sancisce l'anello di congiunzione tra i passaggi della vita.
Il nuovo cd degli Ondamedia “Lungo strade senza volto” sarà disponibile dal 13 novembre 2010 al prezzo di 7 euro nelle seguenti modalità:
- durante i live degli Ondamedia
- online su www.incidi.net e in formato digitale (mp3) su www.incidi.net
“Lungo strade senza volto” sarà inoltre disponibile su iTunes e Napster
Biografia

Gli Ondamedia nascono da un incontro emotivo-artistico, dalla confluenza di strade diverse in un punto comune, strade che si ritrovano a dialogare sull’unico terreno a loro congeniale: gli Ondamedia confrontano le loro storie e il loro modo di concepire la musica navigando su unica onda che media le loro diversità. Questo è il concetto da cui nasce il nome della band.

Attivi dal 1998, fino al 2004 registrano 4 demo che presentano dal vivo nei migliori club di Roma e dintorni con buoni riscontri di critica e pubblico. Nel 2006 coproducono con la UDU Records il loro primo disco “Niente è come sembra”, che vende circa 600 copie esclusivamente attraverso i live e ottiene recensioni positive. Nel 2008 iniziano a lavorare sul loro secondo disco “Lungo strade senza volto”, che vedrà la luce nella seconda metà del 2010.
Nel 2010 si delinea l’attuale lineup, composta da: Fabrizio Collacchi (voce); Massimiliano De Castro e Alberto Foddai (chitarre); Alberto Maiozzi (batteria); Roberto Tempesta (basso).

Press

Suoni che sanno d’oltreoceano, ma rivisitati con cura in chiave nostrana. Arrangiamenti ruvidi, addolciti da rifiniture precise e azzeccate. Buona miscela tra musiche e testi.
(Federico Genta – La Stampa)

Alternano pezzi dall’atmosfera sofferta a tracce più veloci e graffianti. Rabbia, idee e riff chitarristici tanto viscerali quanto coinvolgenti. Elementi Blues (soprattutto negli splendidi assolo di chitarra) ad elementi Hard Rock.
(Enrico Mainero – RockAction.it)

Una band capace di coniugare passaggi soft fascinosi e fraseggi chitarristici d'estrazione rock ottimamente composti e suonati, quasi stridenti nella loro emozionalità ben evidente. La sintesi fra tradizione rock '70 e suono moderno è ben rappresentata..
(Marco Priulla – Rock In Italia)


Web utilities:
http://www.ondamedia.net/
http://www.facebook.com/pages/ondamedia/30469221228
http://www.myspace.com/ondamedia

info e booking: 333.3837272

domenica 17 ottobre 2010

Programmazione Circolo Degli Artisti 18/24 Ottobre

- MARTEDI' 19
Circolo Degli Artisti & Minimum Fax presentano
SANGUE MISTO Book Party
con
Neri Marcoré - voce recitante e chitarra
Fabio Stassi - chitarra
Maré - violino e voce
Franco Piana - tromba e flicorno
dalle 22:45
ingresso
10 euro con libro
dalle 20:30
ingresso libero
proiezione ROMA - BASILEA

- MERCOLEDI 20
Loose Habit & Circolo Degli Artisti
presentano
WE HAVE BAND
+ Discofunken
+ Love The Unicorn
botteghino
20:30
concerti
21:30
ingresso libero fino alle 22:30 / dopo le 22:30 5 euro

- GIOVEDI' 21
ONE DIMENSIONAL MAN
+ Speedy Peones
porte/botteghino
19:30
concerti
20:15
ingresso
12 euro + 1,80 euro d.p.
dalle 23:00
ingresso
5 euro + 1,50 euro d.p.
ANY GIVEN MONTH

- VENERDI' 22
IMMANUEL CASTO
porte/botteghino
20:30
concerti
21:30
ingresso
10 euro + 1,50 euro d.p.
dalle 23:30
ingresso
6 euro + 1,50 euro d.p.
OMOGENIC - serata GLBT curata da DI GAY PROJECT

- SABATO 23
SCREAMADELICA presenta
CRYSTAL FIGHTERS
+ Too Young To Love
porte/botteghino
20:30
concerti
22:00
ingresso
8 euro + 1,50 euro d.p.
dalle 22:30
ingresso
5 euro + 1,50 euro d.p.
ROCK THE DANCEFLOOR - due sale DJ set in collaborazione con RADIO CITTA' FUTURA

- DOMENICA 24
WI-FI ART meets COLLETTIVA FOTOGRAFICA
Festa D'Apertura THAT'S ALL FOLKS
Radio Fandango in diretta dal Circolo Degli Artisti ospita Sylvie Lewis, Elizabeth Cutler, Honeybird & The Birdies, Cacique De Roma
dalle 19:00
ingresso libero

mercoledì 13 ottobre 2010

One Dimensional Man: al Circolo degli Artisti


GIOVEDI’ 21 OTTOBRE
ONE DIMENSIONAL MAN - You Kill Me Tour 2010
+ Speedy Peones
botteghino 19:30 concerti 20:15 ingresso 12 euro + 1,80 euro d.p. dalle 23:00 ingresso 5 euro + 1,50 euro d.p.

ANY GIVEN MONTH

@ CIRCOLO DEGLI ARTISTI

Via Casilina Vecchia 42 - Roma

06 70305684; info@circoloartisti.it

I One Dimensional Man sono un gruppo musicale veneto (precisamente di Venezia) di matrice indie - noise - post-rock e blues che nasce nel 1996 dall'idea di Pierpaolo Capovilla (voce e basso) e Massimo Sartor (chitarra). Successivamente entrerà a far parte della band Dario Perissutti (batteria) proveniente da varie esperienze come chitarrista nell'area indipendente veneziana. Il nome della band è ispirato all'opera del filosofo Herbert Marcuse L'uomo a una dimensione, in cui viene denunciata la tendenza della società occidentale ad appiattire l'essere umano alla dimensione di individuo-consumatore, privo di sogni e aspirazioni diverse dal possesso di nuovi prodotti della società industriale. Con questo nucleo vedrà la luce nel maggio del 1997 il loro primo disco One Dimensional Man pubblicato dall'etichetta indie pisana Wide Records, 13 brani potenti, rumorosi e frenetici. Il disco un po' a sorpresa viene accolto subito favorevolmente dalla critica di settore. Tra il 1997 e il 1998 la band si esibirà in oltre 100 concerti in Italia e all'estero (Slovenia, Croazia, Repubblica ceca e Slovacchia). Suoneranno tra l'altro come gruppo spalla per molti gruppi importanti quali Blonde Redhead, The Cows, Kepone, Fluxus, Uzeda e più avanti nel 1999 con dEUS e Jon Spencer Blues Explosion. Nel luglio del 1998 Massimo Sartor lascerà la band e verrà sostituito da Giulio Favero, giovane chitarrista dell'area indie padovana e precedentemente batterista dei Geyser (ironia della sorte un batterista ex chitarrista e un chitarrista con un passato da batterista). Proprio con l'arrivo di Giulio la sonorità della band si sposta più verso il blues e il rock degli anni ottanta (Birthday Party, The Cramps, Scratch Acid, Butthole Surfers). Nel gennaio 2000 arriva il secondo disco 1000 Doses of Love, sempre con la Wide Records, che esprime pienamente il cambiamento di rotta del gruppo. 9 brani diversi fra loro ma con un filo conduttore, infatti tutti i pezzi sono legati all'amore e al suo fallimento, si potrebbe definirlo come un concept album. Il tour in questione durerà due anni è li porterà in alcuni casi a suonare ancora con band di grande fama come Therapy?, Demolition Doll Rods, Delta 72, Melvins e nuovamente Jon Spencer Blues Explosion. Nel settembre del 2001 si chiudono nel Red House Recordings di Senigallia per registrare il terzo disco che uscirà nel novembre 2001 col titolo You Kill Me che sancirà il passaggio all'etichetta Gamma Pop. Un disco decisamente più maturo accolto con grande entusiasmo sia dalla critica che dal pubblico e li consacrerà come una delle migliori live band italiane in assoluto. Da qui suoneranno per oltre un centinaio di date in Italia e una dozzina all'estero, parteciperanno al programma televisivo MTV Supersonic eseguendo tre brani live e realizzeranno il loro primo videoclip, You Kill Me (regia di G. Cecinelli / Digital Desk, Roma) che verrà programmato da varie emittenti musicali (MTV, All Music, Rock TV, etc.) e suonano in diversi festival estivi come Radio Sherwood Festival (Padova), Rockaralis (Cagliari), Frequenze Disturbate (Urbino, con Giant Sand), Arezzo Wave, Goa-Boa Festival (Genova) e Tora! Tora!. Nel marzo 2003 faranno il loro primo tour europeo che li porterà a esibirsi a Berlino, Vienna, Lugano, Bruxelles, Amburgo. Dopo 4 anni, 2 dischi e circa 200 concerti Giulio Favero matura la decisione di lasciare la band, una scelta serena senza amarezze e incomprensioni che non incrinerà il rapporto con gli altri membri, tanto che Giulio resterà a collaborare per le registrazioni in studio e in qualità di produttore. Arriverà a sostituirlo Carlo Veneziano(Treviso 1983), giovane chitarrista dell'underground trevigiano col quale nel maggio del 2003 iniziano a comporre nuovo materiale e a suonare dal vivo. Durante un concerto il batterista Dario Perissutti si lussa una spalla e viene sostituito per una dozzina di date da Gianluca Schiavon (già con Santo niente, Moltheni e successivamente Yuppie Flu). Dopo una trentina di concerti tra cui alcune date del Tora! Tora!, Arezzo wave e una data del Rock TV tour (che andrà in onda sulla stessa emittente Rock TV) a gennaio 2004 tornano in studio per realizzare il quarto album tra il Blocco A di Padova e il più noto Red House Recordings Studio di Senigallia. Sarà registrato e missato da Giulio Favero (che come citato continua a restare collaboratore della band) e masterizzato da Giovanni Versari al Nautilus Mastering di Milano. Esce il 21 giugno 2004 coprodotto dalle etichette Ghost Records e Midfinger Records e si intitola Take Me Away. 11 brani che tracciano un nuovo cambiamento nel sound della band, stavolta meno aggressivo, più votato alla melodia, talvolta con qualche spruzzo di garage, ma pur sempre un disco degli One Dimensional Man, fedele alla loro attitudine, che non fa altro che confermare l'enorme qualità della band. In estate tornano dal vivo e partecipano a vari festival, tra gli altri Arezzo wave, Neapolis festival (con Air, David Byrne e Arab Strap), Ghost Day (organizzato dell'etichetta varesina) con ospiti come Zu, Karate ed Ex, alcune date del Tora! Tora! tra cui il Brand new: day a Fiumicino (RM). Nel settembre 2004, Mauro Lovisetto, web-designer-grafico-fotografo trevigiano alla sua prima esperienza come regista realizza il loro secondo videoclip, Tell Me Marie, dirigendolo in uno studio di Padova per poi elaborarne un montaggio ricco di grafiche dinamiche, ambientazioni irreali e velocissime sequenze fotografiche, con una tecnica ed un gusto insolitamente originali. Il video comincia ad essere trasmesso dalle varie emittenti tv musicali da metà ottobre e a fine novembre viene premiato al MEI (Meeeting delle etichette indipendenti) di Faenza (RA) come miglior videoclip indipendente dell'anno. Nello stesso periodo si esibiscono in due negozi FNAC per presentare Take Me Away, con un esclusivo showcase in acustico (per la prima volta) suonando l'attesa Mad at Me, due inediti (In Your Arms e Gloria), ed una funebre Just a Boy completamente riarrangiata. La band continuerà a suonare live per tutto il 2005 suonando tra l'altro in vari festival tra cui Tora! Tora!, Arezzo Wave, Piemonte Music Festival, Frequenze Disturbate (per la seconda volta), Metarock a Pisa e il Marcon Music Festival, e come spalla dei Motörhead a Cagliari. Dopo 8 anni di live e 4 dischi nel settembre 2005 Dario Perissutti lascia il gruppo, lo sostituisce il giovane Francesco Valente, proveniente dall'underground triestino. Il debutto di Franz avviene il 24 settembre a Basigliano (GO), per poi continuare il rodaggio in un breve tour in Germania (25, 26, 27 ottobre) ad Amburgo, Berlino e Francoforte. Nel novembre 2005 Pierpaolo Capovilla e Francesco Valente insieme all'ex chitarrista Giulio Favero e al cantante-chitarrista dei Super Elastic Bubble Plastic Gionata Mirai, danno vita al progetto Il Teatro degli Orrori, il cui nome si richiama al Teatro delle Crudeltà di artodiana memoria. La band suona qualche data nel 2006 e comincia un vero e proprio tour nel 2007. Il 6 aprile 2007 pubblicano il loro primo disco, Dell'impero delle tenebre prodotto dall'etichetta La tempesta/Venus. Dopo aver tralasciato per qualche anno il progetto in favore de il Teatro degli orrori nel Mese di Giugno del 2010 a distanza di 6 anni dall'ultimo disco la band annuncia tramite la propria pagina ufficiale su Myspace che tornerà a esibirsi in un nuovo tour nel mese di Ottobre, riproponendo "You Kill Me", uno dei loro dischi più significativi e alcuni brani inediti, con una nuova formazione che prevede oltre a Pierpaolo Capovilla il rientro di Giulio Favero alla chitarra e l'ingresso di Luca Bottigliero dei Mesmerico alla batteria. Aprono gli Speedy Peones.

http://www.onedimensionalman.it/

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http://www.myspace.com/speedypeones

http://www.myspace.com/anygivenmondayroma

http://www.circoloartisti.it

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mercoledì 7 luglio 2010

Intervista a Roberto Gatto

Venti minuti con la storia del jazz italiano: intervista a Roberto Gatto
Pubblicato: July 6, 2010


di Roberto Paviglianiti [Posta un commento] Commenta [Stampa] [Invia questo articolo per email] [Iscriviti]

Quando Roberto Gatto mette giù la cornetta il nostro registratore segna venti minuti e zero secondi, spaccati. Un lasso di tempo sufficiente per saperne di più sulla sua ultima uscita discografica Remembering Shelly, un omaggio al batterista Shelly Manne; fare quattro passi attraverso una storia importante, quella del jazz italiano degli ultimi trent'anni; dare un'occhiata al presente e curiosare nel cantiere di qualche progetto futuro. Insomma, venti minuti passati dentro la musica.

All About Jazz Italia: Un batterista che omaggia un altro batterista rileggendone alcune pagine importanti. Cosa ti ha portato a dar vita ad un progetto come Remembering Shelly e in che modo hai cercato di riproporre la musica di Manne in maniera originale?

Roberto Gatto: È un omaggio alla musica del quintetto di Shelly Manne, non direttamente a Shelly Manne. È un modo per riproporre un repertorio che nessuno prima di me aveva mai riproposto. Quello di una band che era in attività tra il 1959 e il 1961 e che proponeva brani originali scritti dai vari componenti del gruppo. L'idea era quella di suonare una serata di standard senza suonare degli standard (il disco è stato registrato dal vivo all'Alexanderplatz di Roma, N.d.R.). Non so se sia originale o meno, ma un musicista di jazz contemporaneo, visto che suona questa musica, ha il dovere di ricordare e riproporre repertori dei grandi della musica del jazz. L'ho fatto con Miles, ora con Manne e lo continuerò a fare. È come dire: «che originalità c'è nel riproporre la Quinta di Shostakovich dopo 75 anni che è morto?». Eppure continuano a suonarla. Il jazz è come la musica classica; il jazz del periodo di Manne lo si può continuare a suonare ad libitum, altrimenti se si dimentica quel tipo di provenienza si perde il filo del discorso.

AAJ: Qual è il punto di contatto tra te e Shelly Manne dal punto di vista prettamente batteristico? C'è qualcosa che vi rende simili?

R.G.: Trovo di sì, e questo l'ho scoperto strada facendo. Lui era un arrangiatore e compositore, un musicista che spaziava da Ornette Coleman a Bill Evans, alle grandi orchestre. Era molto curioso e suonava in molti contesti: era un musicista. Credo di essere un musicista prima che un batterista, e lui era uno dei batteristi più musicisti del suo periodo e ha lasciato molte documentazioni di questa versatilità, attraverso dischi molto diversi: dal trio di Sonny Rollins alla musica d'avanguardia, al duo con André Previn fino a tutto il jazz californiano. È la versatilità la cosa che mi accomuna a lui, sicuramente.

AAJ: Hai dovuto trascrivere l'intero repertorio in mancanza di spartiti. Quanto hai impiegato per gettare le basi per questo progetto?

R.G.: Circa un mese e mezzo, con molta calma, nei ritagli di tempo. Quel quintetto suonava una musica organizzata e strutturata, con l'idea di una piccola big-band, come molti dei gruppi di quel periodo. Ho addirittura chiesto agli amici della moglie di Shelly Manne se esistevano partiture del quintetto, invece mi hanno detto che non c'era niente, quindi evidentemente loro provavano e registravano così, abbastanza all'impronta. Erano tutti dei super professionisti, assimilavano presto il repertorio e suonavano a memoria. Siccome da nessuna parte si poteva rintracciare qualcosa di scritto, mi sono dovuto mettere lì a trascrivere; un lavoro anche divertente tutto sommato.

AAJ: In Remembering Shelly i musicisti che hai scelto hanno espresso al meglio le proprie potenzialità. In che modo un leader riesce a coinvolgere e trarre il massimo dai componenti di una band?

R.G.: Facendoli appassionare. Essendo tutti giovani, per loro è stata una scoperta. Sembra incredibile, ma alcuni non avevano mai sentito nominare i musicisti di quella band. Per esempio Max Ionata non conosceva Richie Kamuca, che è stato uno dei migliori saxofonisti della West Coast, dicendo: «come è possibile che suono il tenore, studio Rollins e Coltrane e non conosco un super saxofonista come questo?». Li ho messi di fronte a una musica che non conoscevano, si sono appassionati, perché è un bellissimo repertorio, suonato con grande swing, grande freschezza. È una musica molto divertente, quando poi l'abbiamo tradotta dalla carta alla dimensione suonata ci siamo accorti che ancora adesso funziona benissimo. I ragazzi si sono poi documentati, sono andati a vedere tutte le cose che ci sono su internet, dove si possono trovare filmati di pezzi mai registrati. Ho chiesto loro di realizzare un tributo il più possibile filologico, perché né si può prendere quel repertorio e cercare di riarrangiarlo (è una cosa folle dal momento che è arrangiato così bene), né di cercare di modernizzarlo in qualche modo. Bisogna suonare calandosi nell'atmosfera di quel periodo, ed era proprio quello che volevo. Non ho detto loro di fare una cover, ma di suonare in stile rimanendo se stessi. Che poi è quello che è uscito fuori. Il suono del disco è un suono riproposto dal vivo, molto asciutto, di una dimensione che mi riportava un po' a quegli anni. Voleva essere un tributo scientifico.

“Non mi piace il buonismo nella musica, eccedere in cose sdolcinate e ruffiane, voglio che ci siano sempre grande rigore e rispetto”

AAJ: Di recente, oltre alla pubblicazione di Remembering Shelly sei stato protagonista di altre uscite discografiche. Pensiamo al primo disco ufficiale dal Trio di Roma, con Danilo Rea e Enzo Pietropaoli. Che ricordo hai del jazz italiano dei vostri esordi?

R.G.: C'era molto poco jazz in quel periodo. C'erano pochi punti di riferimento, e immagino i giovani d'oggi quanto possano essere fortunati in questo senso, hanno tutto, qualsiasi supporto. A quel tempo i pochi musicisti che c'erano per noi erano fondamentali, per imparare e trarre ispirazione. Scena che non ha nulla a che vedere con quella di adesso. A Roma, per esempio, c'era un pianista, un contrabbassista, forse due batteristi, un trombettista: fine del jazz a Roma. In Italia c'era qualcuno a Milano e Bologna; era una scena povera, ma c'era un grandissimo entusiasmo. Poi c'è stato un periodo di crescita spaventosa, fino ai giorni d'oggi. Il periodo degli anni Settanta è stato il più difficile, perché non esistevano strutture. Umbria Jazz, se non sbaglio, iniziò nel '73, ed è stato il primo festival popolare, di massa, internazionale. Prima forse c'era solo il Festival Jazz di Sanremo, ma era un posto dove pochi, una piccola élite aveva la possibilità di andare. Quindi la nostra generazione ha dato la partenza a tutti. È stata una generazione importante la mia, di Danilo Rea di Pieranunzi, di Massimo Urbani. In quella attuale ci sono musicisti giovani che suonano già in maniera sorprendente.

AAJ: C'è qualcuno che ha catturato la tua attenzione?

R.G.: Ce ne sono diversi. In Italia c'è una scena di musicisti molto giovani, ne cito uno che ho avuto recentemente con me nei I-Jazz Ensemble: Alessandro Lanzoni, un pianista di diciotto anni che ha un talento straordinario, che di solito suona con un altro giovane interessante, il contrabbasista Gabriele Evangelista, toscano come lui. Metterei anche, seppur meno giovani, Max Ionata e Giovanni Falzone. All'estero c'è Brad Mehldau, che continua a essere tra i miei pianisti preferiti, Dave Douglas, ma anche Donny McCaslin e Chris Potter: non sono più giovanissimi, ma di iper-giovani c'è un fantastico chitarrista di New York che si chiama Johnathan Kreisberg, molto forte, e anche Mike Moreno, Aaron Parks e altri.

AAJ: Sei consapevole di essere una delle icone del jazz italiano di sempre?

R.G.: Gli anni iniziano a farmi capire questo fatto, anche se io sono assolutamente sempre a lavoro e in attività più di sempre, con l'entusiasmo anche maggiore di quando ero giovane. Però andando indietro mi rendo conto di aver fatto tanto. Non so se sono un'icona, ma sicuramente un punto di riferimento, credo e spero, importante per i più giovani.

AAJ: Un consiglio da dare a un giovane batterista?

R.G.: Questa musica si fa al meglio avendo grande passione, non esistono altre cose. Ho sempre detto che la passione è quello che ti fa fare un lungo viaggio per andare a sentire un concerto, cosa che io e altri abbiamo fatto, spendere quei pochi soldi che uno ha quando si è giovani per comprare dei dischi. Chiedendo consiglio ai grandi musicisti ed essendo sempre dentro alla musica, assorbendo tutto quello che c'è intorno al jazz, e c'è veramente tanto. È una musica che va studiata, non si vive solo il momento del concerto, è quanto uno gli dedica a livello di studio e di ricerca continua. Ascoltare e scoprire quelli che ci sono stati prima di noi, scoprire il jazz di una volta e tutti gli anelli di congiunzione tra un genere e un altro, i maestri che hanno fatto questa musica grande. Bisogna sempre farsi scattare una ottima dose di entusiasmo, perché senza di quello è molto difficile.

AAJ: Parliamo anche di The Music Next Door. Dal punto di vista compositivo, in un'altra intervista hai dichiarato: «a me piace che dai miei dischi esca la musica, il suono che cercavo mentre componevo». Descrivici il tipo di suono che è uscito da questo lavoro.

R.G.: È un suono di composizioni mie abbastanza intimista, tutto sommato. Mi piace scrivere avendo rispetto per la tradizione e per le grandi melodie, sono un musicista "romantico" e di conseguenza scrivo in maniera diretta verso la melodia. Allo stesso tempo mi piace suonare completamente free, senza forma, un po' come sono stato abituato a fare quando ho iniziato negli anni Settanta con qualche esponente del free jazz. Amo entrambe le strade, mentre non sopporto il buonismo nella musica, eccedere in cose sdolcinate e ruffiane. Ci deve essere sempre un grande rigore e un grande rispetto. In genere scrivo molto piu' di quanto finisco per registrare; sono abbastanza esigente quando scrivo e ho imparato negli anni a farlo sicuramente meglio di un tempo. Quindi quello che esce fuori dai miei dischi, in particolare da The Music Next Door, è un po' un viaggio. Quando uno inizia ad avere 50 anni ha assorbito tanta musica e quindi finisco per riproporre tutto quello che vorrei ascoltare andando a un concerto o ascoltando un disco. È un viaggio attraverso tutto, attraverso la storia del jazz, attraverso la canzone, il pop, il rock progressive, attraverso i cantanti italiani, i compositori di musica da film: c'è tutto questo nella mia sfera musicale, per cui arrivato a un certo punto non devo necessariamente preoccuparmi più di tanto, perché se anche non dovessi avere un'ispirazione saprei dove andare a pescare, come ho fatto in The Music Next Door, dove ci sono cose mie e cose di repertori molto diversi. Questa è una strada che paga sempre e che percorrerò anche nei prossimi dischi.

AAJ: Proviamo dunque a ipotizzare il futuro. Qual è l'idea che vorresti portare a compimento, da qui a dieci anni?

R.G.: Ho diversi progetti. Negli ultimi tre anni ho fatto tanto. Quindi continuerò a lavorate con l'ottetto I-Jazz Ensemble, con il quale realizzeremo un disco, e poi mi piacerebbe secondo capitolo del disco che ho fatto per L'Espresso sul rock progressive, ma con un'etichetta e non in edicola. C'è tanta musica bellissima che ho dovuto lasciare da parte, penso sia il caso di fare un volume 2. Il prog mi sta molto a cuore. Per il momento mi sembra abbastanza, cerco sempre di mettere a frutto qualche idea quando ne vale la pena e quando sono sicuro di ciò che sto facendo.

AAJ: Da qui ai prossimi dieci minuti?

R.G.: Da qui a dieci minuti? (ride, N.d.R.). Non saprei, comunque io lavoro, ascolto musica e scrivo in continuazione. Stavo per uscire a fare dei giri, ma poi alla fine ritorno a casa, sto sempre con il computer acceso a guardare filmati storici, ascoltare musica: sono sempre dentro la musica.


Foto di Claudio Casanova


Visita il sito di Roberto Gatto.

giovedì 17 giugno 2010

The Shape of Jazz to Come? Piero Delle Monache

Piero Delle Monache è uno che non sa stare fermo. Saxofonista con le mani in pasta in diversi progetti, laureato al Conservatorio con una tesi affascinante dal titolo "Lo Zen e i sovracuti: un metodo didattico per imparare a suonare il sax con naturalezza," produttore dell'etichetta Altotenore, prossimo direttore artistico dell'FB Jazz Festival: la sua è un'attività completamente immersa nell'emisfero jazzistico. Lo abbiamo intervistato dopo l'uscita di Welcome, il primo mini-album inciso come leader.

All About Jazz: Raccontaci come è andato il primo incontro con il sax e con il jazz.

Piero Delle Monache: Il sax è arrivato grazie a... una birra! A tredici anni mi sono innamorato della pubblicità della Heineken, quella in cui un sassofonista e un clarinettista suonano in un club. Sono rimasto affascinato da quel suono, da quel mood, dal fatto che intorno a due musicisti potesse crearsi una festa. Ho detto subito a miei che mi sarebbe piaciuto iniziare a suonare, e pochi giorni dopo mio padre ha scoperto che un suo collega aveva un alto in vendita. Incredibile, no? La passione per il jazz è nata dopo, grazie ai primi concerti ai quali ho assistito, ai primi dischi, e alle prime lezioni. Sonny Rollins on Impulse! è stata solo la prima, autentica, folgorazione.

AAJ: Qual è stato il tuo percorso di formazione e quando hai capito di essere diventato musicista a tutti gli effetti?

P.D.M.: Negli anni del liceo ho frequentato l'Accademia Musicale a Pescara. Poi nel 2001 mi sono trasferito a Bologna per l'università (triennale in Scienze Economiche), ma tra i tanti posti nei quali potevo andare ad abitare sono finito proprio davanti casa di Piero Odorici, e ovviamente è successo per caso. Inutile dire che ho passato molto più tempo da Piero, o alla Cantina Bentivoglio, o da Nannucci - un bellissimo negozio di dischi che ora non c'è più -, che in facoltà. Negli stessi anni ho seguito anche moltissimi seminari: Siena, Perugia, Roma, ed è lì che ho conosciuto molti dei musicisti con i quali suono tutt'ora. È in quel periodo che ho capito che la musica stava diventando anche una bella professione, che impegnandomi avrei potuto vivere della mia passione, e che in fondo io e l'economia avremmo volentieri fatto a meno l'uno dell'altra. Credo che il percorso di formazione non si interrompa mai veramente: prima o poi cambia forma, magari da studente diventi insegnante, aumentano i concerti e le responsabilità, ma la curiosità che ti ha spinto a cominciare resta sempre la stessa.

AAJ: Quali sono i progetti musicali che stai portando avanti?

P.D.M.: Sono in un periodo di passaggio, il mio trio italiano si è sciolto da poco e sto dando vita a un nuovo progetto, ma per ora non voglio anticipare nulla. Da quando vivo a Bruxelles (o meglio, da quando ho casa a Bruxelles, perché sono sempre in viaggio) ho anche un quartetto belga, con Nicola Andrioli al piano, Hendrik Vanattenhoven al contrabbasso e Mimi Verderame alla batteria. Sono davvero entusiasta di tutto il gruppo e degli ultimi concerti con questa formazione. Spero di portarla presto anche in Italia. Poi c'è FBJazz, che non è un gruppo ma un festival e un concorso. Sono stato incaricato della direzione artistica di questa bella iniziativa che si terrà a San Giovanni Teatino (CH) dal 26 al 29 luglio. Stiamo organizzando la prima edizione e dietro all'entusiasmo si nascondono anche tanto lavoro e un doveroso controllo dei dettagli. Il progetto è molto ambizioso, sono felice del modo in cui si sta sviluppando e della libertà con la quale posso dare il mio contributo.

AAJ: Il tuo mini-album Welcome documenta un certo rispetto per la tradizione jazzistica, ma anche la voglia di spostare in avanti le coordinate di un canone in mutamento continuo. Come si è sviluppato il progetto?

P.D.M.: Welcome è nato in un modo del tutto naturale. Quando abbiamo registrato, nel settembre 2008, avevo un trio (il Ja.ck) con Francesco Diodati e Alessandro Paternesi. Ero molto contento dei nostri concerti, ma sentivo che il gruppo non era ancora abbastanza maturo per entrare in studio, così ho pensato di allargare la formazione a un sestetto e coinvolgere anche Giovanni Ceccarelli, Matteo Bortone e Andy Gravish. In questo modo avremmo avuto a disposizione molti più "colori" e molte più soluzioni di arrangiamento e, nello stesso tempo, non ci saremmo trovati davanti ai problemi di una formazione bass-less.

AAJ: Solo sei brani raccolti in poco meno di mezz'ora. Scelta dettata da quale motivo?

“Suonare è come chiacchierare con qualcuno: quando suono esprimo me stesso e mi piace l'idea di essere ascoltato e, nello stesso tempo, di ascoltare chi mi sta intorno e di fronte.”

P.D.M.: La scelta del minialbum è dipesa da molti fattori, ma anche da esigenze "editoriali": Welcome, oltre che il mio primo lavoro da leader, è anche il primo numero del catalogo Altotenore. Come produttore artistico sentivo l'esigenza di dare da subito un carattere originale alla mia etichetta. Volevo un disco "leggero" in tutti i sensi, con un packaging moderno e insolito, un'immagine che avesse un impatto diverso da quello che generalmente hanno le copertine dei dischi di jazz, e un prezzo invitante (7,90 euro). L'immagine complessiva del prodotto mi sembravano perfetti per una mezz'ora di musica, ma non per un disco intero, così ho optato per questo formato lasciando fuori altri quattro o cinque brani che abbiamo registrato nella stessa session e che magari recupereremo più avanti. Questa fase di post-produzione è stata forse la più intensa e l'ho vissuta con lo spirito di un regista che, finite le riprese, riguarda tutto il "girato" e inizia a montare le scene e a scegliere quale peso dargli all'interno del lavoro. Se poi il regista è anche attore del film, bisogna valutare quale ruolo ritagliare per se stessi. Devo dire che sono molto soddisfatto del risultato finale, e soprattutto di quanto alcune scelte per così dire "rischiose" (come quella del formato breve, o di una scaletta nella quale i brani che vedono protagonista la mia voce strumentale sono pochi, o della "sorpresa" che chiude il progetto) si stiano rivelando molto piacevoli per il pubblico. Un'altra cosa che mi preme ricordare è che della produzione esecutiva si è fatta carico Banca Serfina, una giovane realtà abruzzese nella quale, per puro caso, ho scoperto che si nascondono due grandi appassionati di musica. Sono molto grato per quanto hanno fatto per me, e spero che la nostra collaborazione continui nel tempo.

AAJ: L'ultimo brano è la rivisitazione in chiave elettronica di "Miramare". Qual è il tuo rapporto con i suoni sintetici? Pensi che in futuro bisognerà spostarsi sempre di più verso questa direzione?

P.D.M.: Si tratta di un'opera di mio fratello Andrea, che nelle vesti di producer hiphop si fa chiamare Deli, e che qualche giorno prima che andassi in studio a Forlì per il mastering del disco mi ha fatto ascoltare la versione revisited di "Miramare". Dato che stavo cercando un contenuto extra per chiudere l'album, la sua idea mi è sembrata subito perfetta. Non si allontanava troppo dal sound delle altre tracce e nello stesso tempo proiettava il disco in un'altra dimensione. Quanto ai suoni elettronici, non credo che utilizzarli voglia dire essere moderni, e quindi la direzione giusta nella quale andare. Semplicemente, quando abbiamo registrato questo disco avevo voglia di quel sound. Ho chiesto a Giovanni (Ceccarelli, ndr) di suonare anche il Fender Rhodes e a Francesco (Diodati, ndr) di fare quello che fa sempre. E lui si è presentato in studio con la sua solita valigia di effetti.

AAJ: Quali sono gli aspetti sui quali vuoi concentrarti per progredire ulteriormente e i punti di forza del tuo modo di fare musica?

P.D.M.: In questo periodo sto lavorando molto sul ritmo. L'anno scorso ho avuto la fortuna di fare da assistente a Mark Turner durante un workshop a Roma, e la prima lezione avrebbe potuto intitolarsi "Tutto quello che avreste voluto sapere sul metronomo e non avete mai osato chiedere". Frequentare Mark è stato uno stimolo incredibile, è un insegnante fantastico e una bellissima persona. Quanto ai punti di forza... bella domanda! Diciamo che qualunque sia il contesto nel quale sto suonando (il palco di un club, o di un teatro, o uno studio di registrazione, o il salotto di casa di un amico), l'unica cosa che mi interessa davvero è la condivisione di quello che sto facendo. Per me suonare è come chiacchierare con qualcuno. Quando suono esprimo me stesso e mi piace l'idea di essere ascoltato e, nello stesso tempo, di ascoltare chi mi sta intorno e di fronte. In fondo, un concerto è come una cena tra amici, nella quale si passa da temi banali, affrontati comunque con coscienza, a momenti più profondi e intellettuali, ma che poi sfociano, quasi inevitabilmente, in una risata. Quando organizzo le scalette dei miei concerti, il mio intento è proprio questo: creare situazioni sempre diverse ma sempre vere. L'anno scorso dopo un concerto a Bruxelles con Flavio Boltro, un giornalista ha pubblicato una recensione nella quale definiva la mia musica "complessa ed efficace al tempo stesso". Ecco, mi piacerebbe che fosse sempre così.

AAJ: Se accendo il tuo iPod, cosa trovo in play?

P.D.M.: Ho un 4 giga, dunque non moltissimo spazio, ma c'è qualcosa che porto sempre con me: Glenn Gould, Pedrão (un musicista di Samba che io e la mia ragazza abbiamo scoperto a Lisbona l'estate scorsa), ovviamente moltissimo jazz, un paio di dischi del Radiohead, e i tre o quattro pezzi "leggeri" italiani che riescono sempre a farmi sentire meglio quando ne ho bisogno. Generalmente scelgo la musica da caricare nell'iPod in modo molto istintivo, ma ogni tanto mi fermo a pensare al perché certi dischi (magari stilisticamente diversissimi tra loro) restano lì dentro per mesi o anche per anni. Sicuramente ci sono vari parametri assoluti che superano i generi e che danno una logicità alle mie playlist e, spero, anche ai miei progetti.

AAJ: Nella tua vita, oltre che per la musica, quali altri interessi o passioni coltivi?

P.D.M.: Il cinema (soprattutto Woody Allen), l'arte moderna (Picasso, Mirò, Modigliani in primis), i viaggi e ultimamente la cucina. Tra l'altro ho scoperto che moltissimi musicisti amano cucinare, inventare qualcosa con quello che trovano in frigo, o inserire elementi presi a prestito dalla cucina orientale o africana nei piatti italiani. In fondo anche questo è jazz, no?


Foto di Hamilton Lake (la prima e la seconda), Ulisse Cipriani (la terza) e Bernard Rosenberg (la quarta)


Visita il sito di Piero Delle Monache.

venerdì 14 maggio 2010

The Shape of Jazz to Come? Federico Scettri

Per la prima puntata di The Shape of Jazz to Come? - la nuova rubrica dedicata ai giovani da tenere d'occhio sulla scena jazz italiana - siamo andati a curiosare dietro i tamburi della Cosmic Band di Gianluca Petrella, perché è lì che solitamente opera Federico Scettri: batterista romano, classe '85, entusiasmo da vendere.
Nel suo presente però non c'è solo l'esperienza con l'ensemble del trombonista, ma una serie di iniziative e progetti che fanno pensare a un futuro tutt'altro che monotono

All About Jazz: Raccontaci come è andato il primo incontro con la batteria e con il jazz.

Federico Scettri: Ho iniziato a suonare presto, a circa quattro anni. Per gioco costruivo dei piccoli set con scatole e pentole, e li percuotevo con posate e mestoli da cucina. La mia passione per la musica la devo a mio padre, che insegnava organo al conservatorio, e alla sua immensa collezione di dischi di musica classica: quindi non ricordo di aver "iniziato" a interessarmi alla musica, c'è sempre stata!

Per quanto riguarda la batteria, ricordo che a circa sette anni andai a seguire una lezione e fui subito entusiasta. In seguito ebbi l'occasione di partecipare ai laboratori del pianista Ramberto Ciammarughi, che mi diede la possibilità di avvicinarmi all'improvvisazione e alla musica jazz. Ho continuato la mia esplorazione con un periodo di lezioni da Fabrizio Sferra e poi con Ettore Fioravanti, "Siena Jazz" e i laboratori di Stefano Battaglia, esperienza che ha cambiato radicalmente il mio modo di vedere la musica.

AAJ: Qual è stato il tuo percorso di formazione sul campo?

F.S.: Le mie prime esperienze le ricordo intorno ai dodici anni in alcune scuole di musica a Roma, e quindi i primi concerti con gruppi cover, soprattutto rock e pop. Molto importante è stato l'incontro con Derek Wilson, batterista attivo nella musica pop italiana, che negli anni mi ha trasmesso una forte disciplina sullo strumento e la capacità di avere "grandi orecchie" quando si suona. Durante il liceo ho poi approfondito la tecnica con un altro ottimo insegnante, Ettore Mancini, ma il momento più interessante è stato quando un paio d'anni dopo il liceo mi sono trasferito a Bologna, è lì che ho conosciuto e poi collaborato con tanti musicisti (ad esempio Domenico Caliri, Edoardo Marraffa, Antonio Borghini) che hanno "formato" il mio percorso e che mi hanno fatto ascoltare e conoscere la musica in maniera profonda.

AAJ: Quando hai capito di essere diventato musicista a tutti gli effetti?

F.S.: Durante il liceo la musica occupava praticamente tutto il mio tempo al di fuori degli studi scolastici, anche durante un anno intero in cui non potei suonare a causa di una forte tendinite a un polso. E così anche dopo la scuola: non ho fatto altro che suonare e affrontare le prime esperienze professionali, che mi hanno appassionato sempre di più alla musica e alla composizione, alla quale mi sono avvicinato da un po' di tempo.

AAJ: Quali sono i progetti musicali nei quali sei attualmente impegnato?

F.S.: I gruppi con cui collaboro sono molto diversi tra loro e in ognuno riesco a esprimere le mie idee, trovando il mio "posto" all'interno della musica: Orange Room, un sestetto condotto da Beppe Scardino; Pospaghemme, in duo sempre con Beppe Scardino; Headless Cat, in trio con Francesco Bigoni e Antonio Borghini; East Rodeo, un gruppo con i musicisti croati Alen Sinkauz e Nenad Sinkauz, insieme ad Alfonso Santimone; Jump the Shark, un quintetto diretto da Piero Bittolo Bon. Inoltre collaboro anche con il gruppo della cantante Patrizia Laquidara e con Funky Football, un progetto su Bretches Brew di Miles Davis condotto da Enrico Merlin.

“Di sicuro la batteria si occupa spesso del groove, ma è soprattutto il suono che mi interessa: la qualità del proprio suono sullo strumento, indipendentemente dalla qualità della batteria o dei piatti!”

AAJ: Mentre Coming Tomorrow: Part One con la Cosmic Band di Gianluca Petrella è l'ultimo lavoro a cui hai preso parte. Come è organizzato il vostro lavoro di squadra? Qual è il tuo ruolo specifico nei meccanismi del gruppo?

F.S.: Una band di dieci elementi è una formazione molto ampia e quindi l'elemento fondamentale è Gianluca Petrella, non tanto come direttore, quanto come organizzatore della musica. Il materiale scritto è molto aperto, perciò l'obiettivo sta nel dare una direzione alla musica nel senso della densità sonora, delle dinamiche, e degli eventi musicali durante il concerto.

Io, in particolare, non mi sento legato a un ruolo preciso. Di sicuro la batteria si occupa spesso del groove, ma è soprattutto il suono che mi interessa: la qualità del proprio suono sullo strumento, indipendentemente dalla qualità della batteria o dei piatti! Nel tempo e nei vari concerti che abbiamo tenuto ho cercato di coltivare la capacità di ascoltare quello che succede, recepire immediatamente ed essere molto reattivo. Questo non vuol dire che la musica deve essere sempre mutevole, ma che bisogna saper scegliere il momento giusto per far accadere qualcosa. In tal senso, un gruppo così numeroso offre molti stimoli.

AAJ: In che modo il batterista può liberarsi degli stereotipi che lo inquadrano "semplicemente" come portatore del ritmo per gli altri musicisti?

F.S.: Direi che la batteria è solo uno strumento, come lo è un sassofono o la voce o una chitarra. Di sicuro in molte tradizioni musicali la batteria e le percussioni sono strumenti dedicati più all'aspetto ritmico della musica. Penso sia solo una questione di scelta da parte delle persone. Esistono moltissimi esempi dove la batteria ha un ruolo melodico nel discorso musicale, lavorando più sulla tessitura sonora e timbrica, piuttosto che sulla scansione ritmica di ciò che suona. Ascoltare la musica classica dal primo Novecento in poi, ma anche lo studio dell'improvvisazione e della musica ad essa legata, mi hanno insegnato come tutti gli strumenti (e soprattutto quelli a percussione) possano essere esplorati e utilizzati in maniera del tutto creativa.

AAJ: L'esperienza con Gianluca Petrella ti potrà tornare utile per un eventuale progetto da leader?

F.S.: Mi ritengo molto fortunato a suonare con Gianluca sia sotto il profilo artistico che professionale, e di sicuro la sua personalità nella musica e sul palco mi ha insegnato molto: quando suoni "deve" succedere qualcosa, in quel momento. Un'esperienza del genere poi ha giovato anche sul piano della visibilità mediatica, e sono contento quando vedo che tanti musicisti mi conoscono e mi apprezzano proprio grazie al fatto che suono con Gianluca Petrella. Speriamo che questa carta in più porti dei frutti e non rimanga fine a se stessa! Visto soprattutto il periodo di "refrattarietà culturale" che stiamo vivendo. Vedo un certo rifiuto, da parte dei festival e degli addetti ai lavori, verso nuovi gruppi sconosciuti che se non fanno capo a un musicista già famoso non vengono quasi mai presi in considerazione.

AAJ: Quali sono gli aspetti sui quali vuoi concentrarti per progredire ulteriormente e i punti di forza del tuo modo di fare musica?

F.S.: Direi che la disciplina mi ha sempre aiutato a essere metodico nello studio. Quindi cerco di essere innanzitutto costante sia nella pratica dello strumento che nell'ascolto dei dischi e nella scrittura. Ho imparato nel tempo a non avere troppa fretta, a non bruciare le tappe. Non penso ci siano grandi segreti in questo senso: l'unico modo è impegnarsi e imparare a concentrarsi, magari anche su degli elementi molto semplici, ma cercando sempre di migliorarsi e di lavorare sui propri limiti.

AAJ: Se accendo il tuo iPod, cosa trovo in play?

F.S.: Di sicuro i Meters: ho comprato da poco il loro primo disco e Zigaboo Modeliste è stato una grande scoperta! Poi anche Quaristice un disco degli Autechre, un gruppo inglese di musica elettronica, veramente unici in quel genere. Poi Pretzel Logic degli Steely Dan, una mia grande passione. E ovviamente Such Sweet Thunder dell'orchestra di Ellington, una musica che ogni volta mi sorprende, e l'orchestra di Jimmie Lunceford: amo soprattutto la creatività dei batteristi di cento anni fa! Un grande maestro è per me Sergiu Celibidache che dirige la "Sinfonia n.9" di Bruckner, e grande ispirazione trovo nell'Ensemble Intercontemporain che suona Xenakis. Di recente mi hanno prestato un disco del Transatlantic Art Ensemble diretto da Evan Parker e Roscoe Mitchell: spaziale è dire poco.

AAJ: Nella tua vita, oltre che per la musica, quali altri interessi o passioni coltivi?

F.S.: Da qualche anno ho ripreso a leggere, cosa che ahimè ho praticato poco durante la scuola: letture piuttosto random, da Agota Kristof, a Brodskij, a Konrad Lorenz, a Jodorowsky. Mi fido molto dei consigli dei miei amici!

giovedì 13 maggio 2010

Fabrizio Savino: Stampo metropolitano

Stilisticamente ispirato da John Scofield, dotato di ottima tecnica e capace di esprimere un linguaggio jazzistico fresco e seducente, Fabrizio Savino - che si è da poco messo in mostra con l'album autografo Metropolitan Prints - è uno dei migliori giovani in circolazione. Abbiamo intervistato il chitarrista di Bari (classe '81), il quale ci ha illustrato la genesi del suo album e il proprio modo di intendere il jazz.

All About Jazz Italia: I brani di Metropolitan Prints hanno come tema ispiratore gli aspetti della città e le sue forme. Come nasce l'esigenza di raccontare in musica questi elementi?

Fabrizio Savino: Volevo racchiudere e raccontare in musica la mia esperienza passata. Ho viaggiato abbastanza per potermi formare artisticamente e questo mi ha dato la possibilità di confrontarmi con molte persone, sia musicalmente che non. Avevo bisogno di più stimoli possibili che mi dessero la possibilità di cercare un mio linguaggio di espressione, nella musica così come nella vita. Chiaramente questo percorso si è svolto principalmente in grandi città italiane ed estere; ed è lì che ho vissuto le varie forme di città, positive e negative.

AAJ: Come si è formato il gruppo che ha poi inciso il disco?

F.S.: Con Raffaele Casarano, Mike Minerva e Dario Congedo c'era già un'amicizia. Con loro ho avuto la possibilità di suonare in passato molte volte. Li ho voluti perché, conoscendoli bene musicalmente, sapevo che avrebbero contribuito alla realizzazione della mia idea in maniera positiva e soprattutto personale. Poi casualmente, in una jam durante un festival jazz, ho conosciuto Luca Aquino e lì ho capito che doveva esserci. Ho sempre adorato il suono della tromba, e lui, con la sua idea "elettronica," mi ha subito colpito.

AAJ: Ascoltando l'album traspare una certa attitudine per l'inserimento di piccoli elementi elettronici. Quando componi, in che modo ti relazioni con le macchine?

“Avevo bisogno di più stimoli possibili che mi dessero la possibilità di cercare un mio linguaggio di espressione, nella musica così come nella vita.”

F.S.: Credo che l'elettronica sia veramente un gran passo verso la musica del futuro, anche se ormai è molto presente. Ho voluto nel disco queste sonorità, perché mi dessero la possibilità di suonare "dentro la metropoli". Mi spiego meglio: l'elettronica ti dà la possibilità di catapultarti in atmosfere in maniera molto realistica (un po' come il 3D utilizzato nei film di nuova generazione), e dato che Metropolitan Prints doveva essere questo, allora ho scritto sempre immaginando un effetto sonoro che poi le macchine mi avrebbero dato. Adoro molto il suono acustico e l'idea del trio mainstream, ma in questo disco dovevo suonare così. Quando compongo è la musica a fare da padrona, cerco sempre di non pensare a come dovrebbe suonare il brano, ma a suonarlo e basta. Più lo immagini, più lo suoni, più tutto viene da sé. Incominci a sentire atmosfere ed idee che diventando sempre più chiare, fino a quando non diventano realtà. Le codifichi e allora capisci ciò che serve.

AAJ: L'unico brano non autografo è "Gallerie" di Raffaele Casarano. Mi parli della vostra collaborazione?

F.S.: Con Raffaele suonare è bellissimo. È un artista che lascia molto alla tua personalità, e inoltre è una persona fantastica. Con lui ci siamo conosciuti per un concerto a Villa Celimontana, dove lo invitai come ospite del mio trio. Da lì è nata una bella amicizia e collaborazione. Volevo un suo brano nel disco, e così è nato. Il ricordo più bello durante la registrazione, è quando mi lasciò solo nella sala, mi fece abbassare le luci e partì il "rec".

AAJ: Artisticamente parlando sei attratto dalla figura di John Scofield. Quali sono le caratteristiche che vi accomunano?

F.S.: Difficilissimo da dire. Trovo più giusto parlare di quali sono le caratteristiche di Scofield che mi hanno sempre affascinato. Innanzi tutto l'idea di suono, il blues (costantemente presente nel suo linguaggio), le composizioni, il suo fraseggio. Ho voluto dedicargli un brano ("John Street") come una sorta di ringraziamento a un grande artista, capace di raccontare la musica, in ogni suo disco, in maniera differente. Basti pensare a Blue Matter, uno dei primi dischi di Scofield "fusion," fino ai dischi di oggi quasi del tutto blues. Un artista senza un preconcetto musicale, capace di racchiudere tutti i generi in una sola parola: MUSICA. E come lui citerei un altro artista importantissimo per me e per la storia della musica passata e futura: Miles Davis. Unico!

AAJ: Dove deve scavare un giovane jazzista per trovare la sua originalità?

F.S.: Credo innanzi tutto nel jazz come forma di linguaggio, prima ancora di genere. Quindi sicuramente per poter parlare bene una lingua, bisogna studiarla nella forma, costruzione, dialettica, e dopo subentra la fase dell'espressione. Qui la fa da padrone l'emozione. Basta vivere a 360° in rapporto con il mondo, per essere costantemente stimolati da ogni forma di emozione. "Purtroppo" il passato jazzistico ci ha segnati moltissimo, infatti ci ritroviamo a suonare ancora oggi quei brani e moltissime volte quegli stili. Tutto ciò va più che bene, anche perché abbiamo la possibilità di studiare il sound di vari periodi, ma dobbiamo anche soffermarci sulla loro originalità. Il be-bop, il cool jazz, l'hard-bop, sono nati per mano loro, noi non dobbiamo soltanto riprodurli, ma evolverli secondo la nostra idea di musica, e logicamente di espressione.

AAJ: Utilizzi le chitarre che tuo fratello Francesco costruisce. Quali sono le caratteristiche che deve avere il tuo strumento ideale?

F.S.: La chitarra è come se fosse il prolungamento delle mie idee, quindi deve essere il più vicino possibile a loro, in tutte le sue parti. Nella scelta dei legni, corde, hardware, tipo di chitarra (solidbody, hollowbody o archtop) fino ad arrivare al tipo di plettro, diversi in misure e materiale, e logicamente ampli ed effetti. La mia fortuna è avere un fratello liutaio (Savino Custom) che mi ha dato la possibilità di chiarirmi le idee su come diversi tipi di legni in combinazione tra loro mi dessero sonorità differenti. Tutt'ora utilizzo una chitarra hollow body, con corpo e manico in mogano, tastiera in ebano, e top in acero quilted, costruita da lui. Questo strumento ha la particolarità di non annullare l'idea elettrica, caratteristica delle solid body (per esempio utilizzo spesso anche un Sg Gibson), ma al tempo stesso mi dà la spinta acustica della cassa. Per adesso è la chitarra dove mi rispecchio di più.

martedì 27 aprile 2010

John Abercrombie Organ Trio: LIVE

Un pubblico non numerosissimo si congeda dalla Sala Petrassi dell'Auditorium con la piena consapevolezza d'aver assistito a un concerto di valore assoluto, prodotto da musicisti capaci di giungere a una sintesi - di stile, impostazione e concretezza - prossima alla perfezione.

Sul palco c'era stato, fino al termine di un sincero applauso, John Abercrombie e il suo Organ Trio. L'organo, quindi, come elemento attorno al quale ruota l'idea di questo originale progetto. Non un organo qualsiasi, ma l'Hammond - l'XK 3c nell'occasione -, strumento dal fascino impareggiabile che ha segnato, in maniera definitiva, un intero filone stilistico sia in ambito jazz che rock. E non solo, viene da dire, soprattutto dopo aver visto il giovane Jared Gold confrontarsi con i compagni di viaggio: Adam Nussbaum alla batteria e John Abercrombie.

Due autentici fuoriclasse. Il primo, rilassato e flessuoso, viaggia veloce sui suoi Zildjian come una pattinatrice su una lastra di ghiaccio sottile, senza sbagliare mai il dosaggio di tocchi precisi e, a volte, impercettibili. Ma anche, all'occorrenza, sciolto nel recuperare una bacchetta volata via in un solo di furiosa bellezza. Abercrombie, poi. Se ne resta seduto tutto il tempo. Sembrerebbe un turista stanco, sfuggito a una guida in giornata di grazia, se non fosse per come traduce sulla sei corde un'espressività tale da far scaturire un caleidoscopio di emozioni. Prendi la versione di "Timeless": intensa, scurissima in ogni misura e di un fascino clamoroso, che mette i brividi e ci fa dimenticare la diatriba al parcheggio con uno dei tanti fan di Samuele Bersani, on stage la stessa sera nella sala affianco.

Concerto da intenditori, ma anche da feticisti e un po' nostalgici, dal momento che diversi, compreso il vostro cronista, stazionano sotto il palco a fine performance per scrutare qualche particolare dell'Hammond, lasciato lì in bella mostra. Impressioni confermate da questo dialogo - origliato con malcelato interesse - di estrema sintesi: lui, un po' miope, riferendosi all'amplificatore: «lì, su quella scatola, c'è scritto Leslie? », lei: «sì caro», e lui, visibilmente compiaciuto: «ok, possiamo anche andare».

martedì 20 aprile 2010

Vincenzo Martorella: il Blues

Per il suo “Il Blues” lo studioso e critico musicale Vincenzo Martorella ha scelto un’impostazione lontana dalle consuetudini che caratterizzano - e spesso asfissiano - i libri dedicati ai generi musicali. Nelle 306 pagine non c’è traccia dell’ennesima discografia consigliata, tanto meno di un filo conduttore meramente cronologico, ma a guidare il lettore sui tratti peculiari del blues – dagli albori fino agli anni Trenta - è un’analisi professionale, e al contempo comprensibile, divisa in tre macro sezioni.
Nella prima parte sono messi in relazione gli eventi e le indagini che hanno portato gli storici a formulare delle ipotesi - qui non sempre confermate - sui natali del blues, una musica, soprattutto nel periodo pre-discografico, di natura frattale e, come ricorda Martorella, senza padri concretamente riconoscibili.
Una linea di condotta che nella seconda parte dà spazio alle forme del blues, al loro aspetto metrico ed esecutivo, e ai significati racchiusi nelle dodici battute. Alcuni capitoli sono dedicati a “cosa” raccontano e al “come” si esprimono i blues, e al loro rapporto con l’intera cultura afroamericana. Sono inoltre descritti i primi protagonisti di un folklore spontaneo e analizzate le costrizioni subite dal canone iniziale con l’avvento delle registrazioni discografiche.
L’ultima sezione si snoda attraverso le vite – spesso intrigate e ancor oggi fitte di mistero – dei principali interpreti del genere: da Bessie Smith a Robert Johnson, passando per Eddie “Son” House, Skip James, Charley Patton e molti altri.
Mappa fondamentale dunque, sia per chi ha voglia di mettersi alla scoperta di una radice musicale affascinante e decisiva per le sorti dell’intera popular music, ma anche per chi pensa di aver già fatto propri tutti i segreti, e le ragioni, di una musica infinita. Indispensabile.

lunedì 19 aprile 2010

2Pigeons: Land

Non è facile incasellare la cifra stilistica dei 2Pigeons, duo italo-albanese di stanza a Milano composto da Chiara Castello (voce e percussioni) e Kole Laca (piano, Rhodes, synth, effetti e cori). Si parte da un’ambientazione elettronica, con testi cantati in inglese – Chiara, per essere precisi, è italo-americana – e una propensione alle tipiche formulazioni pop.

Anche se in Land, il loro debutto sulla lunga distanza dopo l’omonimo EP del 2008, c’è molto di più: c’è la fantasia di un gruppo capace di osare. I ragazzi inseriscono a più riprese contrappunti strumentali che non t’aspetti, come il piano classicheggiante di I-Land, ma anche il sax impazzito di Michele Sambin nell’opener Biko, traccia spiazzante e multiforme; e si lanciano spesso senza paracadute nella libertà espressiva, come in Open Doors. Nelle nove tracce proposte si possono anche incontrare elementi di ballabilità (The River ne è l’esempio più lampante), atomi di drum & bass, rarefazioni bristoliane e una serie di influenze raccolte in molti anni di ascolto attento e sperimentazioni tese al futuro. Inoltre, la voce di Chiara riesce a “surfare” con disinvoltura in ogni brano, rivelandosi a conti fatti il vero elemento portante di Land.Menzione finale per Giulio Favero (ex-One Dimensional Man) che da dietro al mixer è riuscito ad amalgamare un calderone ribollente di elementi formali e stilistici. Ma d’altra parte, i due piccioni, non potevano scegliere un terzo elemento più appropriato.

sabato 17 aprile 2010

Piero Delle Monache: Welcome



È nato nel 1982 Piero Delle Monache, e appartiene a quella generazione di musicisti capaci di tradurre in personale attitudine una ricca quantità di informazioni, stilistiche e di impostazione, ottenute grazie allo studio intenso e alla immediata messa in pratica delle proprie possibilità.

Welcome è il suo primo lavoro con il proprio nome scritto in grande, e racchiude - nel breve volgere di sei brani stipati in poco meno di mezz'ora - un'ampia varietà di soluzioni formali.

Il saxofonista di Pescara si avvale della collaborazione di sidemen altrettanto giovani e preparati - tra i quali si distingue il chitarrista romano Francesco Diodati - pronti ad abbracciare una linea di condotta che spazia dalle melodie corpose e oscillanti di "Noir," impreziosita da un interludio delicatissimo del pianista Giovanni Ceccarelli, alle nostalgiche note di "Miramare," dove il leader sfoggia un timbro scuro e suadente, passando per i cambi di passo incalzanti della veloce "Tutto bene".

Chiude il cerchio la rivisitazione di "Miramare," affidata alle intuizioni elettroniche di Deli, il fratello del leader, che la trasforma in un pezzo vicino ai modi garbati tanto cari ai Gotan Project. Applausi.