lunedì 10 agosto 2009

Zu: intervista

Gli Zu sono uno di quei gruppi ai quali voler per forza affibbiare un solo aggettivo, e tanto meno uno stile musicale definito, è un esercizio che oscilla tra l’inutile e il ridicolo. Il trio – Luca Mai (sax baritono), Massimo Pupillo (basso) e Jacopo Battaglia (batteria) – si muove da dodici anni senza farsi problemi di frontiere e barriere espressive, riuscendo a ottenere un suono e un’originalità che per molti rimarrà per sempre una chimera. In occasione del nuovo lavoro “Carboniferous”, uscito per la Ipecac di Mike Patton, abbiamo chiesto alla band romana di favorirci il loro passaporto musicale.

Cosa ha in più “Carboniferous” rispetto agli album precedenti?
“Carboniferous” è la summa di dieci anni di lavoro, la materializzazione di un’idea di suono che agli inizi non era ben chiara, ma che si è definita via via attraverso un duro e incessante lavoro live e una conoscenza dei materiali presenti negli studi di registrazione, nonché il fatto di voler allargare il nostro spettro sonoro, che essendo in tre necessita di un continuo lavoro di ricerca. Infine, appunto perché in tre, l’approccio allo strumento si è fatto più versatile e l’idea di strumento solista non è appannaggio solo di uno di noi, ma cambia continuamente, quindi può capitare che la batteria è lo strumento solista nonché melodico e il sax porta il tempo e viceversa con il basso. “Carboniferous” è un corpus unico con differenti stratificazioni che si compenetrano vicendevolmente senza che questo distolga l’attenzione dall’idea che lo sottintende.

Quanto avete impiegato per realizzarlo e come si è svolto il processo in studio?
Nello specifico ci sono voluti quasi due anni. L’ultimo anno lo abbiamo passato praticamente tutti i giorni chiusi in sala a comporre 5/6 ore pomeridiane di media e poi partivamo i fine settimana per rodare ciò che avevamo fatto precedentemente. Se c’era qualcosa che non funzionava lo riprendevamo il lunedì successivo. Devo dire che il processo creativo negli ultimi anni è diventato più o meno come diceva Picasso: «non cerchiamo più, ma troviamo».

Lavorare con Mike Patton e la Ipecac in che modo vi è stato d’aiuto? Ci sono state delle restrizioni in fase di lavorazione?
Nessuna restrizione, anzi, pieno supporto e questo fa la differenza quando poi devi fare un bilancio di come è andato il disco. Ti fanno sentire con le spalle coperte nonostante l’attuale crisi discografica.

Ho letto che molto materiale composto, anche finito, viene poi scartato. Cosa deve avere un pezzo per essere considerato all’altezza per un disco degli Zu?
Deve essere abbastanza zamarro da non sfigurare quando te lo ascolti su un’Alfa 75.

C’è un passaggio musicale del quale andate fieri e perché?
Direi di no anzi, può capitare dal vivo di cambiare delle note o effettuare delle modifiche e capire che sarebbero state belle sul disco e sostituirle alle attuali. Comunque siamo soddisfatti non ti preoccupare.

Chi di voi tre è la guida, quello da cui parte lo spunto, l’incipit decisivo per dar vita alla musica?
Gli spunti partono da ognuno singolarmente, oppure quando siamo in sala escono, come ti dicevo prima, le cose le troviamo, senza che perdiamo tempo a cercare. Poi è chiaro che c’è anche un lavoro di sgrezzamento e su questo siamo abbastanza pignoli.

Sul vostro passaporto musicale, alla voce segni particolari, cosa c’è scritto?
Cafoni!

Qual è l’elemento alla base del vostro concetto di trio e come è il rapporto tra di voi al di là dell’essere musicisti?
Siamo cresciuti insieme e abbiamo condiviso molte cose extra musicali, questo ha determinato qualcosa di più solido di un semplice rapporto tra musicisti e ciò fa sì che siamo una band. Poi, come in qualsiasi matrimonio, gli scazzi ci sono sempre.

Quanto culo vi siete fatti in questi dodici anni di carriera?
Taaaanto, e si continua. Non ci sentiamo arrivati, poi dove? L’unico arrivo che abbiamo presente e che ci accomuna è la morte, quindi la nostra vita la esperiamo in termini di espansione e di sfruttamento intensivo della nostra creatività, perché il tempo è tiranno e ciò che facciamo lo facciamo non sapendo neanche noi bene perché, ma sicuramente no in termini di carriera.

Non vi è mai venuta voglia di allargare la band in via definitiva o peggio, di mandare tutto all’aria?
Ogni volta che collaboriamo con qualcuno lo consideriamo della band, non un ospite, anche perché i rapporti sono sempre improntati sull’amicizia e il rispetto e questo ci basta. Per mandare tutto a carte e quarantotto dovrebbe succedere qualcosa di molto grave e ancora non è successo e qui faccio tutti gli scongiuri possibili, ma se poi succede, buonanotte.

Cosa ha reso possibile il poter essere conosciuti all’estero?
Impegno, dedizione, capacità di adattamento a stili di vita differenti nonché essere coraggiosi a mangiarsi le sbobbe olandesi.

Il New York Times (http://www.nytimes.com/2009/02/22/arts/music/22play.html?_r=1&ref=music) parla di voi in maniera entusiastica. Poi magari potete passeggiare per Roma senza che nessuno vi riconosca appena. Come vivete questo doppio aspetto della vostra personalità musicale?
La nostra vita è sempre stata un po’ schizofrenica tanto che agli inizi capitava che facessimo un tour in Europa pieno di gratificazioni e considerazione artistica, poi tornare a casa e la sera stessa andare a mettere i manifesti in giro per Roma, incontrare degli amici e sentirsi dire: «ahò … certo che voi state sempre a Roma… nun fate proprio un cazzo nella vita…».

Venite spesso accostati al mondo del jazz. Qual è la vostra idea di improvvisazione?
Diciamo che del jazz prendiamo soprattutto quell’etica di rottura e di ricerca che ha contraddistinto gente come Coltrane, Dolphy, Ayler, Mingus e altri grandi. Ogni rottura porta con sé l’idea di una nuova costruzione, ma questo non lo facciamo consapevolmente, come se fosse un manifesto a cui aderire. Per quanto riguarda l’improvvisazione a noi serve solo come spunto, in realtà abbiamo ridotto di molto questa pratica in concerto.

(A Luca Mai) A proposito di jazz: di recente su una rivista specializzata è apparso un articolo dove sostanzialmente si dice che i giovani saxofonisti si rendono conto che è quasi impossibile estrarre un qualcosa di originale da uno strumento cha ha già svelato ogni suo mistero. Sei d’accordo?
Gli strumenti a fiato erano accostati, nell’antichità, ai misteri dionisiaci o comunque orgiastici per la capacità che avevano e hanno di smuovere l’istintualità e metterla in contatto con quel mistero che sottende alla creazione e alla energia che la guida. Marsia, narra il mito, trovato l’oboe che Atena aveva buttato perché l’aveva resa ridicola di fronte agli Dei, se ne innamorò e suonandolo tutti i giorni divenne talmente bravo che creava delle melodie che venivano reputate più belle di quelle create alla lira da Apollo. Il dio lo sfidò in una gara musicale e solo per astuzia e raggiro lo battè e meschinamente lo squoiò. Marsia si trasformò in un fiume che ha ancora il suo nome e dove crescono dei canneti ottimi per la produzione di ance. Questo per dire che il ragionamento e tutto quello a cui è correlato non può distruggere un’energia in continuo movimento e trasformazione e quindi i cosidetti giovani sassofonisti si dovrebbero concentrare di più su quanto hanno da dire loro e non il sax per loro.

Avete preso parte alla compilation “Il paese è reale” realizzata dagli Afterhours. Vi sentite così legati alla scena indie? Pensate che la partecipazione della band milanese a Sanremo potrà effettivamente deviare il corso del fiume mediatico?
Siamo dei cani sciolti e non facciamo parte di nessuna scena indie perché non esiste una scena indie. Non credo che sortirà nessun effetto la presenza degli Afterhours a Sanremo perché l’Italia è un paese fortemente conservatore e arretrato, privo di quella cultura musicale che non sia il bel canto o la classica melodia italiana fatta sui soliti tre accordi. Non c’è voglia di investire e creare un mercato che potrebbe dare i suoi frutti ed essere condivisi, perché questo porterebbe anche cultura e questo è un paese dove è oramai assente e l’unico modo in cui la si intende è come vuole quel burattino di Berlusconi, cioè “cul cul cul cultura….”. Fino a quando i cd e i libri verranno considerati beni di lusso e quindi venduti a prezzi esagerati, non potremo aspirare a niente di buono dall’alto, ma è anche vero che finché la maggior parte degli italiani si sente orgogliosa di non leggere questo paese lo possiamo considerare perduto.

Tra cento anni, quando gli Zu non ci saranno più, cosa rimarrà scritto sui libri di storia?
Se il complotto globale avrà vinto e si sarà affermato completamente il “nuovo ordine mondiale” non credo che esisteranno ancora libri, un po’ come “Farenhait 451”. Se invece succederà qualcosa di significativo nel 2012 forse leggeremo che in un paese ridicolo di nome Italia esisteva proprio nel suo cuore uno staterello di nome Vaticano che per 2000 anni ha allungato la sua ombra oscura su tutta la nazione impedendole un naturale svolgimento dei propri diritti voleri nonché libertà personali, che molta gente è morta e ha sofferto per causa loro e molti bambini sono stati vittime dei loro abusi e che per questo nessuno di loro ha mai pagato veramente, grazie a un Papa di nome Ratzinger, l’ultimo dei papi. Poi leggeremo nel capitolo musica che è esistita una centrale per delinquere che si chiamava SIAE e che i suoi maggiori artisti iscritti si mangiavano i soldi dei più piccoli. Nel capitolo rock scriveranno che esistettero i Negrita e che fu il più grande gruppo della storia italiana mentre il paragrafo relativo agli Zu sosterrà che ebbero gli onori delle cronache solo perché in un raptus sconclusionato il sassofonista tagliò, con le chiavi di casa, la frangetta del grande e famoso cantante dei Dari. Per il resto non si sa che musica facessero.

Nessun commento:

Posta un commento