lunedì 3 agosto 2009

Marina Rei: intervista (maggio 2009)

Incontriamo Marina Rei a Roma in pomeriggio quasi surreale, caratterizzato da un acquazzone dopo tanti giorni di caldo estivo e da sparute unità di supporter del ManU che battono la ritirata, sconfitti la sera precedente dopo tante pagine di gloria.
Marina ci risponde rilassata, leggermente provata dalle interviste in agenda quel giorno, ma pronta a ribadire la valenza del nuovo album “Musa”, e la forza di un pensiero che emerge chiaro e dai contorni ben delineati.

Perché la necessità di un album come “Musa”, dedicato al mondo femminile?
Non c’è una vera necessità. È ciò che si è evidenziato da solo in questi anni in cui ho scritto, messo da parte, riletto e in cui ho suonato molto e dedicato molto della mia vita ai concerti e alle collaborazioni. Tutto questo mi ha portato a scrivere di donne forti, rivoluzionarie, che comunque non sono necessariamente famose, anche se cito Frida Kahlo, Tina Modotti, la Montalcini o la Betancourt, donne che rappresentano dei grandi punti di riferimento. Mi piace pensare che le “mie donne” conducono una vita quotidiana di grandi difficoltà, che superano con grande forza; donne che non si lasciano per vinte, ma non rinunciano al proprio scopo, al proprio ideale, al proprio obiettivo e all’affermazione di se stesse, alla propria vita. Donne che combattono e riescono con un sorriso a superare i momenti di malinconia. Mi piace raccontare di loro.
Qual è il messaggio principale contenuto nei brani?
Chi ascolta le canzoni si fa il suo, ognuno interpreta il suo modo di ascoltare la canzone. C’è un modo da parte mia di descrivere un certo tipo di donne con le quali mi rispecchio. Donne che vorrei avessero in mano la situazione, anche politica. Donne che rispetto e che stimo, però non c’è un unico messaggio in “Musa”.
Perchè hai voluto inserire la cover di “Mare verticale” di Paolo Benvegnù?
Perché è una canzone meravigliosa e perché credo che quando si rifà una canzone bisogna ricantarla in chiave personale, non simile all’originale. Il motivo di rifarla è che la sentivo sulle mie corde. Sentivo di poter dare un’interpretazione e cercare di rendere bella la mia versione, anche perché il pezzo è già bello di suo.
“Donna che parla in fretta” è tratta dal poema di Ann Waldman “Fast Speaking Woman”. Come si evoluta l’idea di renderla una canzone?
Il poema lo conoscevo da tempo e mi è sempre piaciuto. Ha dei momenti molti duri, molto crudi, importanti. Era quasi d’obbligo sceglierlo, perché rappresenta un periodo storico. Come donna mi sentivo quasi in dovere riprenderlo e riportare le parti che più mi interessavano, che rappresentavano me stessa e il periodo storico che viviamo. L’ho scelto per questo motivo fino a farne una canzone.
L’album si chiude con “Regina Reginella”, la filastrocca per bambini, come mai?
Essendo io una donna molto estrema, la mia idea era quella di usare il contrasto che c’è nella filastrocca, che apparentemente è una filastrocca per bambini, ma che nasconde un messaggio politico non indifferente. Cioè, la conosci la filastrocca? La facevi da bambino?
Sì, ma questo aspetto, francamente, non l’avevo preso in considerazione (ridiamo, ndr).
Se ci rifletti bene, il gioco è improntato sul potere di una persona sola, di una regina. Questa ha il potere decisionale di far avvicinare o meno qualcuno a seconda del proprio giudizio. C’è in questo un lato abbastanza perfido, nel senso che può far avvicinare qualcuno fino quasi all’arrivo, per poi farlo retrocedere a suo giudizio. M’intrigava molto la cosa, perché c’è uno sfondo molto, molto più forte di quello che si vede in superficie. Questo contrasto tra la filastrocca, apparentemente giocosa, e le voci dei bambini utilizzate in maniera surreale creava questo contrasto che ho sottolineato con le percussioni, che entrano nel brano una dopo l’altra come i personaggi del gioco.
Alcuni brani sono scritti con Filippo Gatti. Mi parli del vostro modo di lavorare insieme?
Stranamente siamo riusciti a trovare una complicità femminile. Abbiamo vinto l’imbarazzo della scrittura a due e ci siamo divertiti.
Femminile?
Sì, io continuo a dirlo, ma lui non lo sa (ride, ndr).
Cosa volevi ottenere sotto il profilo prettamente musicale?
Un suono molto vicino alla creazione dei pezzi, non volevo un suono artefatto che fosse distante dall’immediatezza della scrittura dei brani quando li ho appuntati la prima volta, con voce, chitarra acustica e chitarra elettrica. Quasi tutte le chitarre sono rimaste quelle.
Nell’album s’avverte netta una sensazione di serenità e d’idee chiare. Questo riflette il tuo stato personale?
Sì, sono una persona serena, non nascondo anche le mie difficoltà, anche se di base ho le idee chiare. Quello che volevo scrivere per questo disco l’ho fatto in totale libertà, non mi sono posta se una frase potesse piacere o meno, se potesse andar bene o no. Ho scritto principalmente perché potesse piacere innanzitutto a me.
C’entra qualcosa lo yoga?
No, per la scrittura dei testi per niente. Lo yoga mi aiuta nella respirazione, dal vivo ho una grande resistenza, anche perchè suonare la batteria e cantare insieme non è proprio come stare seduto e fumare una sigaretta. Quello che faccio io, l’astanga, credo sia uno yoga che aiuta molto l’accettazione di te stesso anche nei momenti di difficoltà. Lo yoga ti aiuta ad accettare che quel momento di difficoltà c’è e ti aiuta a superarlo, a essere paziente e a saper aspettare.
“Musa” rappresenta, nella tua carriera, una nuova partenza?
Ogni disco sembra un motivo di ripartenza. Nel senso che anche da tutte le interviste che fai sembra che sei stato sulla Luna e sei tornato.
Cos’è per te una musa?
È una donna di grande fonte d’ispirazione, ma non ce n’è una in particolare, quelle che ho nominato finora sono tutte delle muse. Obiettivamente, una come Benazir Bhutto non può non esserlo stato, o non so, Luciana Sgrena, ce ne sono tante…
Quanto danno fastidio le donne capaci?
Molto. Ma più che fastidio fanno paura. Oggi c’è lo stereotipo impaurito da questa donna, incredibilmente libera, indipendente sotto ogni aspetto, anche economico, come se fosse un fatto straordinario. Forse eravamo troppo abituati all’idea della donna che sta a casa e si occupa solo di quello. Anche una casalinga è una rivoluzionaria, ho il totale rispetto per le donne che sostengono una famiglia, perché, per quanto mi riguarda, la donna è il collante della famiglia, ma da quando la donna, tra virgolette, si è emancipata ha preso la sua strada anche lavorativa e quindi si è creato una sorta di non equilibrio, quindi adesso si dice che questa donna fa paura.
Ti senti una donna fuori dagli schemi?
Io mi sento una donna fuori dagli schemi e dentro gli schemi, quasi in momenti opposti. Nel senso che mi sento fuori dagli schemi quando quello che faccio è di assoluta normalità, come quando la sera sto a casa con mio figlio a leggere un libro. In realtà non so cosa significhi essere fuori dagli schemi, quello che so è che mi sento, e voglio sempre esserlo, una donna libera di esprimermi come meglio credo, di dare il meglio di me e di dare valore alla mia vita.
Molti si chiedono che fine hai fatto in questo ultimo periodo.
Questo però dipende dalle persone che ascoltano. Se sono persone che abitualmente guardano la tv è normale. Ma hai visto chi ci va in tv? Io non ci vado. Vado laddove c’è musica, dove si fa musica o si parla di certi argomenti. Preferisco fare un’apparizione ogni tanto che andare dove non ci sono argomenti concreti. La gente è abituata a valutare la visibilità televisiva pari al lavoro che fai, ma non è così.
Pensi che il grande pubblico abbia un’idea sbagliata riguardo il tuo modo di fare musica?
La gente ha e si fa delle grandi illusioni, magari vede un cantante che va in televisione e si fa delle idee sbagliate. La tv è un mezzo molto potente, che crea delle grandi illusioni, le crea nei giovani, nelle persone che non sono abituate a mettere un velo tra quello che c’è in tv e la realtà. Quello che succede in tv, tolte alcune cose, succede solo in tv, la vita quotidiana è un’altra. Per cui quando ti vedono in tv si fanno delle idee sbagliate, ecco là che nel momento in cui non ci vai o fai cose diverse e comunque non fai programmi di un certo profilo allora si chiedono: da quanto tempo Marina Rei non fa dischi? Semplicemente da quattro anni, ma nel frattempo ho comunque suonato, cioè fatto quello che in realtà dovrebbe fare un musicista anziché andare a perdere tempo.
Parteciperai ai concerti "Tutti insieme per l'Aquila", a Teramo il 31 maggio, e "Amiche per l'Abruzzo", il 21 giugno allo Stadio San Siro. In che modo sei stata colpita dal dramma del terremoto?
Penso che abbia colpito chiunque, è stata una cosa troppo importante, dannosa, ha tolto la vita, le case, ha tolto una grande speranza, quindi ha colpito tutti noi. Avendo sentito la prima scossa da Roma, mi sono spaventata a morte, l’ho sentita fortissima, ero nel panico, non sapevo se catapultami fuori. In quel momento ho immaginato cosa hanno provato loro là. Ovviamente la paura si è amplificata. Alla fine questi concerti sono delle grandi occasioni, in primo luogo di aiuto economico, ma poi di attenzione. Queste cose lo sai come vanno, la gente poi dimentica negli anni, lo Stato tende a dimenticare, tutti tendiamo a dimenticare, ma la gente colpita non dimentica, quindi finché si può accentrare l’attenzione su un problema è giusto farlo.
In ultimo, mi dai un consiglio per gli uomini?
Non ce li ho, me ne diano uno loro a me. La bella cosa degli uomini è la gentilezza, l’attenzione che hanno nei nostri confronti. Mi piace la cortesia, mi piace la dolcezza, quindi bisognerebbe rivalutare queste grandi doti maschili, troppo spesso messe da parte per paura di farle sembrare dei lati deboli, mentre sono lati meravigliosi.

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