domenica 22 novembre 2009

Itinera: intervista a Onofrio Piccolo Jazzit #55

La label partenopea Itinera nasce nel 2004 dall’esperienza del Pomigliano Jazz Festival, ponendosi come obiettivo primario, prima ancora della vendita discografica, la divulgazione culturale delle proprie produzioni. Ne abbiamo parlato con Onofrio Piccolo, direttore artistico della realtà campana, il quale ci ha spiegato i motivi di una scelta coraggiosa.

Con il Festival di Pomigliano avete raggiunto traguardi importanti. Qual è il fine dell’etichetta discografica?
L’obiettivo è quello di documentare e promuovere la nostra attività culturale. A un certo punto della nostra storia abbiamo deciso di costruire un’etichetta che potesse valorizzare il lavoro fatto in questi anni, con il festival di Pomigliano e altre iniziative, e dare il giusto risalto a quelli che sono i talenti campani; musicisti che non sempre trovano uno spazio adeguato nel panorama nazionale, ma che hanno una loro forza artistica da esprimere.

Quanto è dura la vita di una label indipendente in Italia?
Durissima. Noi viviamo perché siamo partiti con un intento culturale più che esclusivamente commerciale. Convinti che la valorizzazione, nel tempo, possa essere un segno riconoscibile e la strada per conquistare uno spazio e una credibilità a livello nazionale.

Siete nati negli anni della rivoluzione internet legata alla fruizione musicale. Una scelta per certi versi coraggiosa.
Certamente. Anche se il nostro è un lavoro basato sulla produzione musicale più che sulla produzione discografica. Il mercato cambia, ma sicuramente rimane l’interesse verso la musica. In tal senso stiamo riorganizzando il sito per sfruttare al meglio le opportunità che internet offre. La rete è un enorme risorsa per raggiungere posti lontani, infatti le nostre vendite in Italia e all’estero sono praticamente della stessa entità. Questa rivoluzione può favorire i piccoli produttori che puntano sulla qualità.

Pensi che tra qualche anno esisterà ancora un mercato discografico, inteso come vendita di supporti fisici?
Per quel che riguarda il jazz sì. Chi ama questa musica ama anche il supporto. La cosa non mi preoccupa, il problema è di chi si è appiattito sul mercato discografico, noi abbiamo più l’idea di essere produttori di musica.

Il catalogo di Itinera inizia a prendere forma con 14 titoli a disposizione. Qual è la caratteristica di cui andare fieri, e dove c’è ancora da lavorare?
La nostra caratteristica principale sono le molte produzioni originali. Non pubblichiamo pacchetti già ideati, puntiamo molto nelle scelte, nei progetti, e favoriamo incontri tra musicisti in questo grande contenitore che continua a chiamarsi jazz, ma che ormai è difficile da definire. In questo modo stimoliamo artisti di diversa estrazione musicale e geografica, dando un contributo alla produzione creativa. D’altro canto dobbiamo migliorare sulla costruzione di un’attività dal vivo che possa far arrivare in maniera diretta la musica al pubblico. Se l’arte non è in grado di arrivare alla gente, perde di forza e significato.

Quando termina la lavorazione di un disco e lo ascolti per la prima volta, a quale elemento presti maggiore attenzione?
Principalmente all’impatto emotivo e poi alla qualità sonora. Credo nella freschezza delle esecuzioni più che al perfezionismo tecnico, anche se è chiaro che la qualità di registrazione deve essere sempre alta.

In studio come ti relazioni con i musicisti?
Cerco di creare un’atmosfera positiva e di far dare il massimo ai musicisti. Questo è possibile solo se c’è armonia. La lezione di Miles è sicuramente sempre da seguire.

Cosa vi differenzia dalle altre label del vostro settore?
Non amo parlare di cosa fanno gli altri, ognuno fa le sue scelte, ma posso dire che noi non seguiamo le mode. Leggendo i cataloghi di altre etichette vedo che ci sono spesso scelte di comodo, progetti che guardano e ammiccano al mercato e al facile ascolto. Noi, pur credendo che sia fondamentale fare cose per farle ascoltare non solo a noi stessi, in qualche modo cerchiamo sempre un grado di rischio in quello che facciamo.

Itinera nasce dall’esperienza del festival di Pomigliano Jazz. Qual è concretamente il rapporto tra le due realtà?
È un rapporto di causa-effetto. L’etichetta nasce dal lavoro fatto nel festival, ma la nostra intenzione è sempre stata di tenere le due realtà su binari paralleli. È chiaro che lo spirito è molto simile, ed entrambe sono spinte da un comune senso di divulgazione culturale, ma nelle intenzioni devono vivere di vita propria. Il festival è libero di programmare le cose più giuste, e le produzioni di Itinera non per forza devono entrare nel cartellone del festival, tranne quando lo riteniamo opportuno.

Organizzare una rassegna jazz in Campania: pro e contro.
Di positivo c’è che Napoli è un luogo simbolo della musica nel Mondo. C’è un background musicale stratificato e pieno di commistioni culturali e artistiche. C’è una grande ricettività e il pubblico, quando ci sono buone proposte, risponde in massa. Chiaramente le difficoltà sono quelle di un’impresa che vive in un contesto complicato, sia dal punto di vista istituzionale che territoriale. Non c’è possibilità di programmare in largo anticipo le attività da svolgere e questo crea un notevole handicap a livello promozionale. Abbiamo negli anni costruito una serie di rapporti internazionali che a volte non riusciamo a rispettare proprio per questi motivi. Limiti e vincoli burocratci ci tolgono molte possibilità di espansione. È un sistema che non funziona a dovere. Anziché supportare le attività, creano ostacoli.

I cartelloni dei festival jazz sono sempre meno coerenti con una precisa filosofia artistica.
Molto spesso vediamo festival che si lasciano andare ad attività di scambio, che non sempre sono culturali, ma sono solo di interesse. Non per fare i moralisti, ma nel nostro piccolo cerchiamo di mantenerci autonomi, senza forzature. Siamo uno dei festival che continua a proporre nel cartellone concerti difficili. Nell’ultima edizione, per fare un esempio, abbiamo avuto Antony Braxton sul palco. Questo modo di fare ci ha dato modo di toglierci qualche soddisfazione.

Riversate molte energie anche alle attività collaterali, come incontri, guide all’ascolto e workshop.
Certo. Facciamo un grande lavoro per avvicinare e ampliare il pubblico. Abbiamo un seguito giovane e di target diversificato, anche perché abbiamo organizzato molte attività parallele, come l’educazione all’ascolto nelle scuole, gratuita e aperta a tutti. Molte risorse sono dedicate alle attività di creazione del pubblico, soprattutto verso i non musicisti, e tutte queste attività di divulgazione ci hanno restituito una certa credibilità.

Nella storia del festival, qual è stato il concerto più importante?
Se devo citarne uno solo dico Chick Corea in trio acustico, nel 2001, davati a quasi 15000 persone. È stato un evento forte per la nostra immagine. Ha segnato una svolta da una fase di avvio a un consolidamento.

Chi tra i musicisti che frequentano le vostre produzioni potrà lasciare un segno? Nomi e cognomi, please.
Due pianisti: Franco Piccino, che ha debuttato con un disco in trio (“Lunare”, ndr) e l’anno prossimo uscirà con un piano solo di libera improvvisazione; e Francesco Nastro, con il quale collaboriamo da molti anni e meriterebbe di avere uno spazio pià ampio nel jazz i

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